Cultura e Spettacoli

Matthias Sindelar, un gol ai nazisti pagato con la vita

Nel destino di ognuno resta sempre da giocare un’ultima partita. E se per chi vi assiste conta vincerla o perderla, agli occhi di chi la gioca, a volte, è più importante sapere come la si è giocata. Quando Matthias Sindelar segnò il gol dell’1 a 0 della sua Austria contro la loro Germania, sapeva che sarebbe stato il suo ultimo gol e la sua ultima partita, e non perché aveva già trentacinque anni: «Matthias segnò al 17º del secondo tempo. Dicevano i tecnici che i gol erano tutti uguali. Non era vero. Quel gol contò per mille e mille ancora. Volò su Vienna e l’Austria e si piantò nel cuore di chi lo volle avere». L’Austria batté la Germania per 2 a 0, dopo Sindelar segnò Sesta, al Prater di Vienna, sotto la cinepresa di Leni Riefenstahl, gli occhi di migliaia di spettatori e quelli di milioni di austriaci e di tedeschi. Anzi, di sudditi del Reich. Perché era il 3 aprile 1938: ventidue giorni prima, il 12 marzo 1938, la Germania aveva battuto l’Austria e non era stata una partita di calcio, ma l’Anschluss. Da allora, per sette anni, l’Austria non ci fu più, ci fu il terzo Reich, e non ci fu neanche la nazionale austriaca di calcio, la grande nazionale in grado di battersi alla pari con gli italiani di Vittorio Pozzo, due volte campioni del mondo.
In La partita dell’addio (Mondadori, pagg. 211, euro 16,50) Nello Governato, che prima di diventare giornalista e scrittore, calciatore lo è stato davvero, racconta la vita di Matthias Sindelar. Il quale non ebbe il genio di Maradona o di Pelè, né l’epopea di un Di Stefano o di un Valentino Mazzola. Fu un grande giocatore, non un grandissimo, e probabilmente non troverà mai posto nell’Olimpo in cui i fuoriclasse sfidano il tempo facendo gol agli dei. Ma si trovò a dribblare un avversario più insidioso e invincibile di tutti i Buffon e i Maldini del mondo. Nel giorno in cui i tedeschi concessero agli austriaci l’ultima partita prima di eliminare la loro nazionale insieme con la loro nazione, lui dimostrò a se stesso, agli austriaci, ai tedeschi e a chi, in Europa, in quel momento, aveva ancora occhi per vedere, che ci sono partite in cui non conta dichiararsi più forti, avere più soldi, giocatori meglio allenati, tutte le condizioni favorevoli, per vincere: bisogna, appunto, riuscire a vincere. E per farlo è necessario scendere in campo, undici contro undici. E giocarsela.
Matthias Sindelar e i suoi dieci compagni scesero in campo, giocarono e vinsero contro gli undici fratelli nemici tedeschi. E al termine della partita tutti, austriaci e tedeschi, «si schierarono sull’attenti. Così, al comando scandito, ci fu lo scatto nel saluto nazista. Sindelar e Sesta stettero immobili, le braccia allungate sui fianchi». Solo Sindelar e Sesta. E chissà se fu perché Sindelar aveva una fidanzata italiana ed ebrea, Camilla Castagnola, che non fece il saluto nazista. Ciò che si sa è che nove mesi dopo, «i corpi senza vita di Matthias Sindelar e Camilla Castagnola vennero trovati distesi sul letto nel loro appartamento dalla polizia segreta tedesca (...). Nessuno seppe mai com’erano morti Matthias e Camilla». Le autorità naziste cercarono di mettere a tacere tutto, ma non ci riuscirono: «I funerali furono seguiti da una folla enorme, più di quarantamila persone».
Matthias Sindelar aveva vinto la sua ultima partita in campo e poi aveva perduto quella fuori dal campo.

O forse, quasi settant’anni dopo, si comincia a capire che le vinse tutte e due.

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