Ma ci è o ci fa? A leggere quel che scrive la domanda viene spontanea. Quando lo vedi hai la certezza: non ci fa. Maurizio Milani (nome d’arte di Carlo Barcellesi, Codogno, 1959) è proprio uno così. Un vero «uomo da badile», un «animale da fosso», un «orrendo giovanotto padano». Stralunato e geniale. Tenero e ruvido. Piace perché non c’entra niente. Perché è una finestra surreale su un mondo troppo reale.
L’ultimo libro si intitola Del perché l’economia africana non è mai decollata. L’ha voluto la sua editor della Kowalski, Angela Lombardo. Lui voleva fare Fidanzarsi senza essere convinto, sulla scia dei precedenti titoli, tre al femminile: Vantarsi, bere liquori, illudere le donne (Baldini & Castoldi), In amore la donna vuole tribolare e La donna quando non capisce si innamora (Kowalski) e tre al maschile: Animale da fosso (Bompiani 1994), Un uomo da badile, e L’uomo che pesava i cani (Kowalski).
Ma l’editor gli ha detto che doveva cambiava genere, fare un saggio economico. Lui ha cambiato il titolo. Dentro il libro si trovano cose del tipo: «Il gioco degli scacchi in Africa non decolla. La colpa è di Gino Strada che non gli fa imparare le regole. Si giustifica così verso la comunità internazionale: “È un gioco troppo complicato, prima devono imparare a giocare a dama, poi tra qualche secolo ne riparliamo”». Qualche pagina dopo: «Il bridge in Africa non decolla. Penso sempre per problemi come sopra». Qualche pagina ancora dopo: «Ieri al campo di calcio di Rogoredo abbiamo giocato contro la nazionale del Cile. Abbiamo perso 36 a 1. La colpa è di Gino Strada. Ps: Gino Strada non vuole nemmeno che finita la partita facciamo la doccia. Giustamente dice che l’acqua è un bene prezioso e non va sprecata. Il presidente del Wwf gli dà ragione. Dice che una doccia a settimana è più che sufficiente per stare in piedi con decoro. Comunque noi giocatori sul pullman eravamo sudati come tori al sole». Oppure: «Quando il 50% della popolazione di una società ha un cane che pesa più del padrone, la società in questione è destinata a estinguersi prima».
Ecco fatto. In poche righe Milani ti smonta anni di Buonismo, Terzomondismo, Ginostradismo, il Trattato di Kyoto e l’Ecologismo. Il libro è tutto così. Impossibile da raccontare. Chi segue la rubrica «Innamorato Fisso» sul Foglio, sa di cosa parliamo. Chi non la segue, non importa. Si prenda il libro e scoprirà un mondo a parte. Bellissimo. Fatto di morose (commesse, impiegate delle Poste, ragazze conosciute in coda a pagare l’Ici), di bevitori di Fernet, Digestivo Antonetto e Chinotto. Guidatori di camion, maschi che si vantano al bar, gente da libretti di lavoro, bollini Inps, ferie e permessi sindacali.
È arrivato al suo settimo libro in dodici anni ma chiarisce subito: «Non sono uno scrittore, sono un comico». Tecnicamente è un comico scuderia Zelig, Gino & Michele (Kowalski), ospite fisso da Fabio Fazio. Dalla sua biografia: «Faceva il tossico smarrito per Paolo Rossi in Su la testa! Ha portato drogati, barboni disadattati e disincantati, cinici personaggi crudeli, mai banali a Cielito Lindo, Letti Gemelli, Scatafascio, Facciamo Cabaret». Anche se non lo sa, invece è proprio uno scrittore di satira, uno dei pochi rimasti in giro. Uno che non fa solo dell’umorismo, per intendersi. E lì sta infatti la differenza con i comici che scrivono libri, che poi sono solo le raccolte delle loro battute.
Milani ha avuto grossi problemi di salute. Ma chissenefrega. Sono fatti suoi e vi basti sapere che il giorno più brutto della sua vita è quando sua madre ha avuto l’ictus. Dorme quattro ore a notte imbottendosi di Tavor e non c’è verso di farlo stare zitto. Impossibile fargli un’intervista come Dio comanda, perché divaga in continuazione e si perde nei suoi deliranti pensieri. E così si capisce come nasce quel che scrive. Gli basta sentire un titolo al tg o leggere una notizia sul giornale, e il suo cervello parte per la tangente a inseguire pensieri surreali.
Ecco allora cosa siamo riusciti a fargli dire di sensato (anche se ha poco senso lo stesso). Ha trovato finalmente una morosa. «È la cassiera del bar dove vado a prendere il cappuccino la mattina. Si chiama Anna, lei è convinta che la mando al Grande Fratello. Mi ha chiesto: “Mi puoi far fare un provino?”. Io non posso niente però glielo faccio credere. Così andiamo avanti almeno due o tre mesi». Al bar ci sta quattro o cinque ore al giorno. «Vado dentro alle nove la mattina, poi torno alle dieci e mezza. Poi a mangiare il panino all’una e mezza. Poi magari a prendere un caffè alle quattro. L’ora più bella è tra le sette e le otto quando tutti i miei amici - rappresentanti, impiegati - vengono a prendere l’aperitivo». Parlano di calcio, di politica, di morose. Quelli che frequentano il bar di Milani si vantano molto per far colpo sulle donne. C’è chi dice di essere arbitro alle Olimpiadi o titolare del brevetto del polistirolo. Il vanto maggiore di Milani è quando gli ha telefonato a casa Eros Ramazzotti. «Ma questo è vero e al bar non lo dico. Perché sennò mi escluderebbero: se hai quelle frequentazioni lì vai al circolo Lions di Portovenere con Ramazzotti e Jennifer Lopez e non stare qui con noi».
Si scoccia quando i giornalisti gli chiedono perché non fa un romanzo vero. Allora lui risponde infilandoci qualche «fia» in più del normale. «Fia, io faccio tanti racconti brevi, faccio i cento metri e li vinco, fia. Perché volete farmi fare la maratona? Fia, io non ho la padronanza della lingua, mi esprimo con duecento vocaboli, ne sono consapevole. Se uno mi dice: tu giovanotto mi fai ridere ma non hai padronanza della lingua, io l’accetto. Ma non mi dire che devo fare un romanzo. Fia». Poi racconta che a scuola era un asino, 38/60 per la maturità da perito agrario, con calcio nel sedere. Non ha mai letto un libro fino a che non ha conosciuto i comici di Zelig (anno 1987), gente colta che girava con la maglietta con scritto Samuel Beckett e lui non sapeva chi fosse. E così si è messo a leggere l’Ulisse di Joyce. Però l’autore preferito è Bukowski.
Ha scritto il libro sul perché l’economia africana non è mai decollata, ma non lo sa. Dice: «Chiedetelo a Piero Angela». Però sa che «un culturista occidentale consuma come una tribù di pigmei».
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