Maurizio Mosca, la tv perde il "calciattore"

Amatissimo dai tifosi per sceneggiate, battute e «bombe», aveva esordito in video con un talk show sportivo Al suo fianco volle Helenio Herrera ma anche presenze considerate eretiche come Brigitte Nielsen e Moana Pozzi

E adesso chi ci servirà, la domenica all’ora di colazione, un paio di bombe di calcio-mercato, col racconto di trattative mirabolanti da lasciare tutti incantanti senza che nessuna si realizzasse mai per davvero? E adesso chi farà dondolare il famoso pendolino ricavandone risultati roboanti, un 3 a 3 o un 4 a 3, per le sfide più attese del campionato, cogliendo nel segno una volta su cento? Ecco la tristezza che ci fa compagnia da ieri mattina: ci mancherà maledettamente Maurizio Mosca. Mancherà al nostro calcio avvelenato e alla tv, mancherà ai suoi amici che amava tempestare di telefonate brevi e ripetute, mancherà ai tifosi che si sforzavano di intuirne il segreto tifo, mai dichiarato, neanche sotto tortura. Ci mancherà non solo per il divertimento assoluto garantito dalle sue apparizioni alla platea numerosa di aficionados pronti a seguirlo come una sorta di profeta con la sciarpa, l’immancabile protesi utilizzata anche d’estate, con 35 gradi all’ombra. Non curava mai il look Maurizio, preferiva inseguire la battuta fulminante. «Beccalossi? Chi? Non lo conosco».
Ci mancherà davvero perché negli ultimi anni era diventato un pioniere inascoltato di una battaglia persa per convincere i parrucconi del calcio a spalancare le porte alla tecnologia, alla moviola insomma, facendo i conti con la presenza sempre più invasiva di telecamere che raccontavano, spesso, altre partite, altri episodi, altre responsabilità sfuggite ai più in tribuna. «Ma allora avete stravinto!» chiosava dinanzi alle puntuali chiusure esibite da Blatter o da Platini, i sacerdoti della conservazione più ottusa. Se la prendeva come un ragazzino con chi gli avesse negato il gelato, schiumava rabbia ma non arretrava di un centimetro nella personalissima crociata.
La spiegazione è molto semplice, persino elementare. Maurizio Mosca è sempre stato un sognatore, a tutte le età. Lo è stato da ragazzino quando andava sul campetto verde di Imbersago, residenza estiva della famiglia Moratti, per realizzare tunnel alla Sivori, il suo campione di riferimento, incrociando i tacchetti con la Bedy che lui descriveva «più feroce di Burgnich come difensore». Lo è stato da giornalista appena sbarcato nella mitica Gazzetta dello Sport da la Notte, dedicandosi alla nobilissima arte, al pugilato raccontato come una favola. È rimasto un sognatore quando, alla scuola di Gino Palumbo, divenne redattore-capo e realizzò interviste esclusive scivolando sulla buccia di banana Zico.
Senza annunci solenni, riciclando la sua carriera che aveva subito un traumatico stop, Maurizio Mosca ha traghettato una bella fetta di giornalisti sportivi dalla carta stampata alla televisione. È stato uno dei primi a cedere alla «sindrome del faccione» come l’aveva ribattezzata, abbandonando il teatrino di Aldo Biscardi per riuscire più tardi a realizzarne uno tutto suo. Era partito da Casa Mosca, un talk-show alla buona, edito da Telenova, di matrice sportiva ma aperto a belle donne come Brigitte Nielsen, a cantanti finiti nell’ombra Nicola Di Bari, prima di confezionare la risposta di Mediaset, nel ’91, al processo di Biscardi. Si presentò con L’appello del martedì convincendo Helenio Herrera a reggere il ruolo di giudice imparziale delle controversie calcistiche e riuscì ad arruolare per la sua pittoresca giuria popolare persino Moana Pozzi che discuteva di rigori e ammonizioni senza negare le proprie grazie alla telecamera.
Considerava il lavoro una religione e le vacanze una insopportabile debolezza. Perciò si presentava in redazione tutti i giorni, tranne che feste comandate, e continuava a telefonare, proporre servizi, sentire amici e colleghi cui chiedere numeri di telefono privati o pareri su una sua tesi. S’era specializzato nei tormentoni: uno dei più noti, «ah come gioca Del Piero!» era diventato il più gettonato e il trillo del cellulare privato di Alex. Venti giorni prima di arrendersi alla malattia che lo aveva reso schiavo di pillole e controlli, aveva chiamato in redazione, al Giornale, per avere il recapito di Giancarlo Danova detto Pantera cui chiedere un ricordo di un Milan-Manchester d’altri tempi. Di recente la sua presenza in tv s’era ridotta ma non s’era certo ritirato sull’Aventino, Maurizio. Anzi, appena c’era qualcuno che s’informava sul suo stato di salute, con voce tonante rassicurava: «Sto bene, ci vediamo presto». Non si è mai sentito malato. Forse perché la sua passione principale, il lavoro, era alimentata da una strepitosa volontà. L’ultimo intervento scritto sul sito di Sportmediaset era stato vergato a favore di Mario Balotelli: da quando il giovanotto era finito nel mirino di Mourinho, di Moratti e degli interisti riuniti, lui ne era diventato un paladino.

Stare dalla parte del più debole, era diventato un tic oltre che una scelta di campo. Se n’è andato in punta di piedi, Maurizio, lui che era abituato a sceneggiate napoletane e a litigi furibondi. Non gradiva la pietà del pubblico fedele. Avrebbe preferito un lungo, interminabile applauso.

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