Da McEwan a Houellebecq e Pallavicini (passando per Crichton) La scienza si fa romanzo

Massimiliano Parente

Mi chiedo sempre: cosa potrà mai dire di interessante uno scrittore completamente digiuno di scienza? E sì che tutti vogliono essere «realisti»! Realismo senza una visione scientifica del reale? Sono realista se credo agli oroscopi, e dunque in un certo senso ancora alla Terra Piatta? Sono realista se mi chiamo Antonio Tabucchi e confondo la Via Lattea con l'intero universo? Sono realista se la genetica, la fisica, la chimica, la biologia, così rivoluzionarie nel XX secolo, non hanno cambiato di un millesimo la mia Weltanschauung?

Insomma, prima dell'Ottocento era più semplice: la scienza era tutt'uno con la teologia, e con la sua gemella laica, la filosofia. Per cui uno studiava biologia sui testi del reverendo William Paley, uno dei grandi bersagli presi di mira da Charles Darwin. Gli umanisti, da lì in poi, si sono arroccati in una torre d'avorio e sono rimasti a lucidarsela, convinti di essere superiori in una beata ignoranza, separandosi con il ruolo di «intellettuali» (come se Einstein non usasse l'intelletto più di loro). A parte la Francia, che aveva i lumi, e poi Balzac, e Flaubert, e Zola, fino a Proust, quest'ultimo tra i primi a comprendere la lezione di Darwin, tanto da infonderla nella visione della sua irraggiungibile Recherche.

Ma quali sono gli scrittori, oggi, che hanno compreso l'indispensabilità della scienza e ne hanno tratto materia per i loro romanzi? Non tantissimi. Di sicuro, restando in Francia, Michel Houellebecq, con Le particelle elementari, in grado di ragionare sul mondo attraverso la meccanica quantistica; e in seguito con La possibilità di un'isola, forse il suo più bel romanzo, incentrato sulla clonazione e l'idea di sopravvivere a se stessi.

Negli Stati Uniti spicca David Foster Wallace, e non soltanto per quanta scienza di ogni campo ha messo nel suo capolavoro, Infinite Jest, ma anche in racconti minori (Tennis, tv, trigonometria, tornado) e perfino in un complicato saggio sulla matematica: La storia dell'infinito. Un po' di scienza l'ha masticata anche Don DeLillo, basta leggere La stella di Ratner, opera del 1976, oppure il suo ultimo romanzo, Zero K, nel quale, alla stregua di Houellebecq ma con minor efficacia, affronta l'idea della sopravvivenza del corpo, qui per mezzo dell'ibernazione.

Ovviamente, in secondo piano ma neppure troppo, ci sono i maestri della science-fiction, con un nome per tutti: Michael Crichton. Sul quale bisognerebbe dire: sarà pure di genere, ma scrive meglio di un qualsiasi vincitore del Premio Strega, e a differenza di questi ultimi anziché farti sbadigliare ti tiene incollato alla pagina e impari anche qualcosa. Per questo Jules Verne ha un posto di rispetto in letteratura: era narrativa popolare, ma ha anticipato molto di quanto sarebbe successo, dalla televisione al viaggio sulla Luna.

In ogni caso lo scrittore vivente più interessante resta l'inglese Ian McEwan, il quale anche nella vita privata ha ottime frequentazioni, essendo amico di scienziati come Richard Dawkins e Stephen Hawking. Tra i suoi romanzi più belli: Solar, che ha per protagonista un astrofisico, e Sabato, la tragica giornata di un neurochirurgo.

In Italia la situazione langue, vuoi perché siamo pieni di tromboni neoplatonici, vuoi perché lo scrittore scolastico di riferimento è Manzoni, vuoi perché il marxismo ha sempre visto nella scienza il capitalismo, male assoluto, come d'altra parte per il cattolicesimo. Comunque qualcosa c'è. Per primo Primo Levi, basti pensare a Il sistema periodico, raccolta di racconti dove ogni storia porta il nome di un elemento della tavola periodica, con l'assunto di fondo secondo cui «la nobiltà dell'uomo, acquisita in cento secoli di prove e errori, era consistita nel farsi signore della materia». Anche l'ingegner Gadda di scienza ne faceva pasticciacci di pura entropia, ma d'altra parte rimestava ancora all'interno della filosofia, e della letteratura finalizzata alla lingua: lingua sublime, per carità.

Un posto d'onore a Italo Calvino, che ha spiegato l'Universo in Ti con zero e nelle Cosmicomiche, pur riducendo la scienza a un espediente affabulatorio fiabesco, e tuttavia per la poetica di Calvino, si sa, la letteratura era una favola (come per l'altro Italo, quello Svevo, era psicanalisi).

Tra i viventi, il migliore: Piersandro Pallavicini. Scrittore e chimico (insegna all'Università di Pavia), si legga il suo strepitoso e esilarante La chimica della bellezza (Feltrinelli), storia di un professore coinvolto in un misterioso intrigo tra premi Nobel a Locarno, un romanzo che vi farà amare la chimica come non mai. Sempre in Svizzera, ma intorno a Ginevra e parlando però di fisica, c'è Atlante occidentale, di Daniele Del Giudice, molto meglio di Bruno Arpaia, il quale (per esempio ne L'energia del vuoto) parla di fisica ma in modo troppo metafisico, va bene giusto per chi è ancora inguaribilmente new age. In alternativa preferibile leggersi Chiara Valerio, scrittrice e matematica di formazione, che ha scritto una bella Storia umana della matematica, un libro squisito sospeso tra teoremi e autobiografia.

Delle opere, importanti, del sottoscritto non parlo perché questo articolo lo sto scrivendo io, mentre per il resto, tra gli autori nostrani senza arte né parte né scienza, un disastro: tanti rumorosissimi post-pasoliniani e post-post-moderni e post-spiritualisti e post-niente senza posteri, perché privi di una visione profonda delle cose. Il romanzo impegnato, il thriller disimpegnato, il romanzo rosa tendente al porno, il romanzo adolescenzial-meditativo, il romanzo di formazione in un mondo sformato, e se volgono i nasini al cielo non hanno ancora recepito la rivoluzione copernicana.

È in fondo un problema che si poneva già Galileo Galilei: se l'arte dovesse essere solo intrattenimento o anche un approfondimento delle cose, un mezzo estetico per capire di più il mondo. E senza scienza è difficile approfondire anche un tramonto senza sdilinquirci davanti come una cartolina già vista un milione di volte, come in un romanzo di Gramellini.

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