Meloni: "Il dolore nascosto dei giovani"

Il ministro lancia un progetto per aiutare i ragazzi: "Oggi ci sono molte più difficoltà. Ma tanti riescono a reagire"

Meloni: "Il dolore nascosto dei giovani"

Roma - C’è chi si fa di chemio per vivere, e chi si fa di cocaina per morire. Lo scrittore Fabio Salvatore, 34 anni, racconta così la sua esperienza del dolore: lui è stato colpito da un cancro alla tiroide dieci anni fa e ne è uscito. Altri scelgono di rovinarsi la vita con l’alcol o la droga. La malattia e il veleno della dipendenza sono due facce del dolore, quello di oggi. Una sofferenza che può portare a gesti estremi, come quello della tredicenne inglese che si è uccisa perché troppo bella, tormentata dalla gelosia altrui. È per raccontare e affrontare il dolore dei giovani che nasce il progetto «Al di là del presente», patrocinato anche dal ministro della Gioventù Giorgia Meloni.

Come ha deciso di sostenere il progetto?
«Mi ha colpito l’approccio: raccontare un’esperienza di vita e di sofferenza, che non derivava da una decisione personale, ma da una malattia. E poi confrontare questa realtà con quella delle devianze, di chi si infligge del male per scelta, con l’abuso di alcol o di droghe».

La malattia e la dipendenza sono due facce del dolore. Qual è il legame?
«Il modo migliore per raccontare il dolore a chi se lo infligge è parlare di chi soffre a causa di una decisione non sua. Così dici a tutti: se hai l’opportunità di vivere la tua vita, non decidere scientificamente di privartene».

Funziona?
«Ho incontrato molte persone che combattono o hanno combattuto contro la malattia. E di solito sono arrabbiate con chi butta via la propria esistenza. Quello che mi sembra utile è l’approccio diverso al valore della vita, qualcosa che, molto spesso, nella quotidianità anche noi diamo per scontato».

Come reagiscono i ragazzi al dolore? L’affrontano o non sono in grado?
«Non sono convinta che i giovani non siano in grado di affrontare la sofferenza. Anzi. Credo ci riescano meglio e con più dignità che in passato, anche perché si trovano di fronte a difficoltà molto maggiori rispetto ai loro genitori. Ma proprio per questo il dolore non va banalizzato, nelle sue forme diverse, da quello fisico fino alla precarietà».

Ma lei nella sua vita come si è comportata di fronte al dolore, anche di chi le stava accanto?
«Quando una persona soffre da una parte cerchi di sostenerla, dall’altra di spronarla. È il principio comunitario: condividere la sofferenza. In una comunità se cadi c’è sempre qualcuno che ti aiuta a rimetterti in piedi. E trovi la forza di reagire alle difficoltà: il nemico peggiore è la solitudine, è pensare che non ci sia nulla per cui valga la pena combattere. L’aiuto è una spinta ad agire».

Un sondaggio, presentato con il progetto, dice che per i giovani fra i 18 e i 30 anni il problema più grave della nostra società è la solitudine. Non la colpisce che a quell’età i ragazzi ancora si sentano così soli?
«Questa è una realtà figlia della crisi di alcune istituzioni comunitarie e anche di certe tecnologie, che non sono da demonizzare, ma che peggiorano nettamente la qualità dei contatti, tanto quanto la moltiplicano in quantità. Un computer riempie la giornata, ma solo all’apparenza: certo non può sostituire un rapporto umano. Ecco, è questo insieme che fa percepire ai ragazzi un grado totale di solitudine».

Non sarà così per tutti...
«No, anzi. Nonostante la società non spinga a indirizzare le energie verso gli altri, ci sono tantissimi giovani che si dedicano al volontariato».

Che cosa si aspetta da questo progetto?
«Il mio obiettivo è di fare molta formazione: iniziative culturali, che possano incidere su una cultura dominante che è frutto di quella serie di degenerazioni di cui abbiamo detto. Quella per cui, per esempio, sei un figo se bevi più degli altri. E invece no: non lo sei se ti fai del male da solo, mentre tanti altri sono costretti a combattere da anni contro la malattia».

Ma i giovani che soffrono sono emarginati?
«Sì. C’è emarginazione verso i giovani, figuriamoci verso quelli che soffrono. È l’incapacità di comprendere loro e il mondo che cambia. Il risultato è che un’intera generazione viene letta e descritta per stereotipi e diventa impossibile aiutarla. E questo provoca l’emarginazione».

Però c’è speranza?
«Assolutamente. Questa è la realtà, certo, ma io ogni giorno insisto nel raccontare che questi giovani sono molto meglio. Un caso di bullismo finisce in prima pagina, tutti ne parlano e commentano. Ma non c’è solo quello.

La verità è che oggi, nell’era della precarietà, ogni giorno i ragazzi si ritagliano uno spazio per crescere e realizzarsi, per fare volontariato, per l’associazionismo, per l’impegno nel comune o nella società. Oggi, non nel ’68: allora era molto più facile fare la rivoluzione. Invece ci sono tantissime storie positive, di forza, di impegno, che ci dicono che vale la pena lavorare su questo mondo».

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