Laltro giorno mi sono trovato davanti a una platea di giovani industriali e ho avuto l'impressione, all'improvviso, di parlare in ostrogoto con cadenze gaeliche e sottotitoli in sanscrito antico. Il moderatore faceva domande sulla situazione politica a me e a un direttore di un giornale di sinistra (il quale, avendo molto talento e nessun prolasso deontologico, sulla sinistra era assai più critico di me), ma le nostre risposte, in quasi perfetta polifonia, cadevano nel gelo di un'afosissima sala. Praticamente, un ossimoro d'imbarazzo vivente.
Dapprima ho pensato che gli sguardi un po' apatici di quella platea fossero proprio colpa del caldo padano della sala. Che ci vuoi fare? Ormai si risparmia pure sui condizionatori. Dopo la Robin Tax, la Sudor Tax: entrambe puzzano un pochino. Poi invece ho proprio capito che i nostri discorsi, le sottili disquisizioni su Di Pietro e Veltroni, le varie posizioni sul lodo, i distinguo del Palazzo sulle alleanze strategiche, erano lontani anni luce dall'esperienza quotidiana di quegli imprenditori. E alla fine costoro, seppur stremati dallaria ormai mefitica e dalle nostre ciance quasi più insopportabili delle traspirazioni, l'hanno tirato fuori chiaramente: «Tutto quello che avete detto è bellissimo. Ma quand'è che torniamo a parlare di economia?».
Ecco, penso che la domanda meriti di essere ripetuta: quand'è che torniamo a parlare di economia? Non c'è stato troppo tempo per parlarne, ultimamente. L'ossessione anti-berlusconiana di giudici e giustizialisti ha costretto a mettere in primo piano, un'altra volta, il tema delle toghe politicizzate e il tentativo di sovvertire nelle aule dei tribunali gli esiti del voto democratico. Così abbiamo fatto un passo indietro: c'eravamo svegliati dopo le elezioni con l'impressione di vivere in un Paese normale, ci siamo improvvisamente sentiti scaraventati dentro un terribile déjà vu. Adesso, però, ci piacerebbe fare un passo in avanti: una volta approvato definitivamente il lodo Alfano e affossati per sempre i girotondi della mezzamanica Di Pietro, sarà possibile tornare a parlare di economia e dintorni?
Ce n'è bisogno. I dati di oggi sulla produzione industriale fanno paura. Le nuvole della crisi internazionale non si sono dissolte. Anzi, incombono ancor più minacciose. I mercati vacillano, le famiglie soffrono, il sistema produttivo pure. Gli stipendi degli italiani sono fermi da 15 anni, ha denunciato il governatore Draghi. E nonostante questo il costo del lavoro per unità di prodotto in Italia è più alto che negli altri Paesi europei: negli ultimi dieci anni è cresciuto in media del 2 per cento, mentre in Spagna aumentava dell'1 per cento e in Francia e Germania, addirittura, si riduceva dell'1 per cento. Hai un bel parlare della posizione di Parisi all'interno del Pd. Ai giovani imprenditori nella calura padana non interessa. «Quand'è che si riducono le tasse?», chiedono.
Il governo ha segnato la strada nei primi giorni di vita: l'abolizione dell'Ici e la detassazione degli straordinari sono state due promesse mantenute, provvedimenti già in vigore ed efficaci. Ma non basta. Bisogna proseguire su quella strada con vigore, rigore e decisione. I grandi scenari planetari, le filosofie globali, le pietre miliari del pensiero moderno sono importanti, per carità. Ma quello che serve ora sono misure concrete che aiutino il Paese a svilupparsi, le famiglie a sopravvivere e le imprese a non morire. E allora scusate la domanda: ma quali sono le prossime tasse che verranno tagliate?
Risulta, per esempio, difficile da spiegare (agli imprenditori padani, ma non solo a loro) come mai nel documento di programmazione economica e finanziaria non si preveda una discesa della pressione fiscale nei prossimi tre anni. Almeno in prospettiva una speranza di liberazione dai balzelli il governo ce la deve dare. E se per rispettare i vincoli di bilancio sarà necessario intervenire ancora sulla spesa pubblica, si faccia. Si può fare. Finalmente si può fare.
Il presidente Berlusconi esce da questa fase complicata come il vero vincitore. Ha incassato il lodo Alfano, la rottura tra Di Pietro e Veltroni, l'appoggio del presidente Napolitano, che ha bacchettato il Csm e strigliato Walter quando quest'ultimo ha pericolosamente pencolato verso i guitti di piazza Navona. E inoltre il premier esce a testa alta anche dal G8 del Giappone, tanto che persino Bob Geldof, l'icona mondiale dei cantanti impegnati, dice di avere fiducia solo in lui per il futuro del pianeta. In Italia la luna di miele continua: i sondaggi lo danno in costante crescita, il sistema economico e finanziario lo appoggia, e con tutti gli sforzi di comici, pupazzi, scrittori e majorettes, in piazza contro di lui non sono scesi più di quattro gatti. Siamo arrivati al paradosso: persino il presentatore della manifestazione «No al Cavaliere» appena sceso dal palco ha detto: «Ha ragione il Cavaliere. Siamo spazzatura». Di più, sinceramente, non si può pretendere.
In pratica, è quasi un nuovo trionfo, per il premier, dopo quello del 13 aprile, dopo la vittoria a Roma e dopo quella alle elezioni in Sicilia. Ma è un trionfo che ora toglie anche gli ultimi alibi.
Mario Giordano
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