Cultura e Spettacoli

Il mercato brutto e cattivo espulso dal circo Bauman

Vi sono discipline che, più di altre, espongono al rischio di smarrirsi in narrazioni verbose, dove il rigore lascia il posto a impressionismi e formule a effetto. È questo il caso di tanta parte della sociologia, come conferma l’ultimo volume del polacco Zygmunt Bauman (L’etica in un mondo di consumatori, Laterza, pagg. VII-234, euro 16), che si propone di cogliere il senso dell’età contemporanea a partire dal supermarket e da una sua presunta centralità. La chiave interpretativa è la nozione di consumatore, poiché secondo l’iterata formula baumaniana della società «liquida» saremmo prigionieri del mercato: un sistema cieco e fuori controllo che produrrebbe alienazione grazie al moltiplicarsi di beni e servizi.
Tradizionalmente, gli autori collettivisti contestavano la società di mercato sostenendo che al suo interno l’élite economica sfrutterebbe le masse e quindi sottrarrebbe loro una parte di quanto producono. Questa era la tesi di Karl Marx e del socialismo anarchico, che imputavano all’economia borghese di non permetterci di diventare davvero consumatori. Ma nel momento in cui il capitalismo ha ampliato la ricchezza, la litania è cambiata: e oggi la società liberale è messa sul banco degli imputati proprio perché consente un potere d’acquisto che in passato non era pensabile.
Alla base della riflessione c’è il presupposto (indimostrato e indimostrabile) secondo cui la società globale sarebbe dominata dai consumatori. Non però dai singoli, ma dalla forza anonima che essi insieme esprimerebbero: una spinta impersonale che assorbirebbe il cuore stesso della loro esistenza. Il fatto, fuori discussione, che solo in parte i consumatori decidano sul destino delle risorse - poiché l’economia è largamente controllata da politici e burocrati - non interessa a Bauman. Nelle sue pagine la semplificazione regna sovrana ora come già avveniva nei decenni della sua militanza intellettuale comunista. La stessa condizione di precarietà in cui si trovano molti lavoratori non sarebbe allora da attribuire agli errori dei pianificatori statali, ma invece al libero scambio. Questo discende dal fatto che nella mente del sociologo l’unico ordine possibile è un ordine imposto dall’alto, e quindi costruito: lo schema altamente simmetrico, a esempio, con cui i soldati sono disposti da un ufficiale su una pubblica piazza. Equilibri dinamici e altamente complessi quali sono quelli del linguaggio, della ricerca scientifica e del mercato (ma anche del diritto evolutivo) non trovano spazio entro la sua riflessione.
Va ricordato che già all’epoca di Krusciov il sociologo polacco pubblicava in media più di un libro l’anno: e anche in seguito non ha perso il ritmo. Difficile ritenere, insomma, che si possa trattare di lavori veramente pensati. È comunque curioso rilevare come L’etica in un mondo di consumatori finisca inconsapevolmente per contestare uno dei guru del progressismo occidentale: John Maynard Keynes. Questi ha infatti sempre esaltato i consumi e ha quindi spinto numerosi governi ad alimentare la domanda in forma artificiosa: a esempio grazie al debito, oppure ai bassi tassi di interesse. Mentre il capitalismo di mercato è supply-side (valorizza l’offerta, la produzione) e per questa ragione enfatizza il ruolo creativo dell’imprenditore e l’esigenza - in molti casi - di evitare e ritardare i consumi (poiché è solo dal risparmio che può prendere forma il capitale), l’autore della Teoria generale prospettava un’economia che si sviluppasse da sé. Quali che ne siano i motivi, sarebbe la corsa incessante ai consumi che permetterebbe al sistema di reggere e progredire.
Ma di questo Bauman non si avvede. Tanto più che per mettere in croce il capitalismo egli si accontenta della retorica di una qualsiasi Naomi Klein, oppure della tesi secondo cui la nostra esistenza apparirebbe libera, mentre è dominata dalla fretta, dall’indifferenza, dall’impossibilità di vivere eticamente. In questo senso, se nella tradizione cristiana il male morale è prodotto dalle scelte umane, la riflessione del sociologo è dominata da un greve materialismo che demonizza il semplice atto del vendere e dell’acquistare. L’impossibilità di un’esistenza moralmente dignitosa è insomma addebitata alle istituzioni.
Gli argomenti baumaniani sono però terribilmente ingenui. Come quando afferma che gli uomini non avrebbero mai lavorato tanto come oggi (benché le ore di lavoro siano in calo da decenni), oppure quando sostiene che tutti noi saremmo sempre più infelici. Un’affermazione che lascia il tempo che trova, dato che non esiste né può esistere una misura per la gioia. Sebbene sia sua ferma convinzione che l’aumento dei consumi produca sofferenza, egli non trae neppure da ciò ogni conseguenza e insomma non aggiunge che un loro crescente contrarsi, a esempio a seguito di una crisi, ci riempirà di letizia. A ben guardare, il suo errore capitale sta allora nel credere di aver individuato un fattore determinante «esterno» e collettivo (l’aumento dei beni disponibili, in questo caso) per qualcosa di così individuale, soggettivo, indefinito.
Mentre larga parte della riflessione si muove lungo sentieri oscuri, la conclusione del volume non lascia spazio a equivoci, poiché ripropone il modello di un mondo politicamente unificato. Se la libertà è il male, il potere sarà la soluzione. Si muove quindi da Kant (riferimento obbligato) per giungere fino a Habermas, e così la direzione è la medesima seguita da tanti studiosi contemporanei, persuasi che il superamento dei poteri nazionali apra all’avvento di un sistema di dominio globale e, in definitiva, a un vero Stato mondiale.

L’augurio di quanti hanno a cuore la libertà dei singoli, ovviamente, è che si tratti di parole al vento e che la storia non segua quella strada.

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