Politica

Il mercato delle pulci

Come si fa a stare dalla parte dell’odiosetta tassa sulle ricariche telefoniche? Tanto più è cara, tanto meno quattrini di traffico compriamo. E come si fa a stare con le Poste che spesso e volentieri si perdono la nostra corrispondenza per strada. O dalla parte delle banche che ci rifilano quello che vogliono o le assicurazioni brave ad incassare e molto meno ad aprire il portafoglio. Come si fa a non trovare anacronistico quel delizioso impedimento corporativo a tagliarsi i capelli di lunedì. Come si fa?
È da guardare positivamente dunque tutto ciò che dia una ventata di maggiore competizione nel polveroso salottino italiano. Trascurando pure tutte le obiezioni metodologiche, che decreti e disegni governativi approvati ieri, comunque, sollevano. Una per tutte: il mercato non si fa per decreto o per legge sul singolo settore. La via del mercato non è dunque quella di scavalcare le Authority indipendenti sulle ricariche telefoniche, ma rispettandone e se si vuole pungolandone le attività.
Però non ci venga spacciato questo mix di buone intenzioni e imposizioni immediate come una rivoluzione. E non si dica che questi interventi di puntuta saggezza emiliana alimenteranno una crescita virtuosa del nostro pil. La Thatcher ha fatto una rivoluzione liberale e si è trovata con i minatori in piazza, ma ha lasciato un’economia in crescita. Ronald Reagan ha spostato ancora più verso il mercato il capitalismo già ben oliato delle grandi corporation americane, ponendo le basi per la impetuosa crescita dei redditi del secolo. Pier Luigi Bersani non assomiglia a nessuno dei due. Per carità, ieri ha dovuto fare fuoco e fiamme financo per portare a casa questi piccoli provvedimenti. Ha dovuto spiegare ai suoi colleghi di banco le virtù del mercato, mentre questi gli infilano sotto la giacca una propostina indecente per obbligare gli italiani a vedere meno film americani e più polentone domestiche. Si ha l’impressione che il de minimis di cui si è occupato il nostro praetor nasca dall’incapacità di liberalizzare davvero. La principale liberalizzazione sarebbe infatti quella di lasciare più quattrini nelle tasche dei cittadini, liberi così di spenderli come meglio credono: ebbene per il ministro del Tesoro passeranno anni prima che gli aumenti fiscali introdotti da questo governo vengano eliminati.
Una seconda liberalizzazione riguarda la pubblica amministrazione: un carrozzone da 3,3 milioni di dipendenti che rappresenta il maggior costo che ogni cittadino e impresa paga ogni giorno. Il governo invece di innescare un sistema di maggiore competizione nel pubblico si è inventato un memorandum che sembra una tormentata pagina del «giovane Werther». Una brillante presa per i fondelli piena di «meritocrazie», «concertazioni», «efficientamenti» e superblabla. Firmata con i sindacati, sempre più veri padroni della nostra amministrazione con le loro 700 diverse sigle «rappresentative». Una terza liberalizzazione è quella del lavoro, che lo renda più flessibile sia in entrata sia in uscita. Mentre da noi si parla di abolire la Legge Biagi e di penalizzare i lavori flessibili.
La quarta grande liberalizzazione, può apparire banale, è quella di lasciare le grandi imprese libere di farsi gli affari loro, nel rispetto delle regole. E da noi in pochi mesi il governo Prodi ha procurato la fuoriuscita del numero uno del principale gruppo telefonico, ha bloccato la fusione di Autostrade con gli spagnoli di Abertis, progetta di tagliare per legge il fatturato di Mediaset (ma qua parliamo di «roba» vicina e cara) e ha messo in piedi un ibrido finanziario fatto di Fondazioni, banche e Tesoro per investire nelle infrastrutture.


Sì, certo, Bersani prova a darci una mano, ma nel frattempo ci hanno assestato un bel cazzotto nella pancia.

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