La camera di Meredith è l’ultima in fondo a sinistra. Le amiche dicono che in quella stanza la ragazza non faceva entrare nessuno. O quasi: solo il fidanzato, Giacomo, baciato per la prima volta tre settimane fa, aveva dormito in quel letto una sera in cui lei aveva bevuto molto. Il «regno» di Amanda, invece, era un porto di mare e forse era la chiave di violino per interpretare la casa di via della Pergola. Tre stanze, quattro coinquiline: due italiane, estranee alla tragedia, la vittima e la presunta assassina.
L’ingresso che funzionava come una porta girevole: sulla destra il soggiorno, col divano e la tv poggiata sulla mensola addossata alla parete di fondo; la cucina, al centro dell’appartamento, e sulla destra un corridoio che si apre sulle tre camere. Difficile non essere risucchiati in quel vortice di amicizie, flirt, in bilico fra precarietà e voglia di emozioni forti, feste con sballi, rapporti sessuali consumati come picnic.
Forse Meredith un suo ordine se l’era dato proprio in camera. Ma il 2 novembre la polizia postale trova prima la porta chiusa e poi, dopo averla abbattuta, un gran disordine. Le foto mostrano proprio una baraonda, come se il clima festoso e irresponsabile dell’abitazione fosse penetrato anche lì. Ma questa volta c’è dell’altro: sotto il piumone beige c’è un corpo. Lo si capisce perché, dettaglio caravaggesco, spunta un piede che penzola giù dal letto. Meredith, così poco facile, è morta. Quella trapunta, che dovrebbe essere un accessorio rassicurante e protettivo, quasi un focolare, si svilisce fino ad essere l’equivalente del lenzuolo bianco che ricopre i morti in strada. Come a Cogne, dove il piumone macchiato stride con le goemetrie armoniose di quella villetta da Mulino bianco.
Il cadavere di Meredith viene spostato, il materasso ispezionato: saltano fuori tre impronte di scarpe, ma solo una può essere analizzata: secondo il gip Claudia Matteini «è compatibile per la forma e la dimensione con la suola delle scarpe» di Raffaele Sollecito, il fidanzato del momento di Amanda. C’è sangue dappertutto: a terra e sul muro. Sul cuscino ormai rosso, c’è un’impronta digitale giudicata molto importante: potrebbe essere di Patrick, il musicista congolese amico di Raffaele. Il vetro della finestra è rotto. Cocci, sangue, oggetti che stanno non dovrebbero: un litigio, una tentativo di difesa, un depistaggio grossolano - la simulazione di un furto - da parte dell’assassino o degli assassini?
Tre i responsabili, a sentire i magistrati: Raffele, Amanda, Patrick. Tutti parte di quella compagnia variopinta e sventata che caricava le notti di emozioni e le allungava come elastici alla ricerca spasmodica di nuove sensazioni. Inglesi, arabi,americani. Qualche italiano. Passavano da un locale all’altro, da uno spinello ad un concerto, entravano e uscivano, qualche volta l’allettante Amanda li calamitava in via della Pergola. Fidanzati pescati come coriandoli dal sacchetto multicolore di quell’umanità spumeggiante e fragile, sentimenti saldi come sabbie mobili, il sesso come scorciatoia verso la vita adulta. Forse c’è un rapporto a tre a spiegare il dramma. Amanda, che dice e ritratta trasformando anche i suoi verbali in una giostra, afferma - salvo poi smentire - che lei era in cucina la sera del 1 novembre e da lì sentì la colonna sonora del delitto: Patrick che si apparta con Meredith in quella camera solitamente inespugnabile, poi le urla di lei, poi per non sentire più si sarebbe tappata le orecchie. I giudici la ritengono complice di Patrick e di Raffaele.
Qualcuno, prima di tagliare la corda, è andato in bagno, subito a destra dell’ingresso. Le macchie di sangue sono anche lì: a terra e sul lavandino.
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