Messico, i giudici confermano: Calderon è il nuovo presidente

Gli studenti delle periferie umiliano i prof, li filmano col telefonino e trasferiscono le immagini sul web

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Conta e riconta, alla fine è il voto che conta. Lo ha deciso il tribunale elettorale del Messico, in un tentativo di chiudere una volta per tutte la campagna post elettorale scatenata dal candidato della sinistra Andrés Manuel López Obrador contro i brogli che egli denuncia nello scrutinio delle elezioni presidenziali del 2 luglio. Il tribunale, che avrebbe l’ultima parola in questa complicata questione, ha sanzionato che il voto è valido e così la distribuzione dei suffragi, che vede in testa il candidato della destra Felipe Calderón con un margine di circa 234mila voti su López Obrador. Un distacco minimo, di cui è stato legittimo chiedere un ricalcolo, anche perché il Messico, in quanto a tradizione di correttezza elettorale, non è precisamente all’altezza della Norvegia. Tuttavia il lavoro è stato fatto. È stato contato il 9 per cento delle schede, un campione più che sufficiente come trend, e i dati hanno confermato esito e distacco, senza variazioni visibili a occhio nudo. Sul filo del rasoio, ma Calderón ha vinto e può così succedere al compagno di partito Vicente Fox.
Il problema è che López Obrador non ha accettato l’esito delle urne, non lo accetta e, se si deve prenderlo in parola, non lo accetterà mai. Si prepara anzi a organizzare una cerimonia in cui sarà proclamato a sua volta presidente. Può farlo perché a Città del Messico, di cui è sindaco uscente, controlla, oltre che il suffragio popolare, la piazza; ma la sua scelta rischia di riaprire una questione di legittimità che nella storia messicana è stata o l’alibi o la causa di più di un secolo di instabilità politica, caos, paralisi amministrativa e, troppo spesso, guerra civile. A quantificare questo rischio è, oltre a numerosi uomini politici, Enrique Krauze, forse il maggior storico messicano vivente. In un editoriale sulla rivista Letras Libres egli ha ricordato la storia e le sue statistiche. Calcolando che il Messico come nazione abbia 681 anni di vita, cioè dalla fondazione dell’impero azteco nel 1325 a oggi, il Paese è stato retto, ricorda Krauze, «da una teocrazia indigena per 196 anni, dalla monarchia assoluta di Spagna per i successivi 289 anni, per 106 anni sotto dittature di persona o di partito, per 68 anni sconvolto da guerre civili e solo 22 anni in democrazia: il 3 per cento di tutto questo tempo». Arroccata, questa democrazia, in tre fugaci periodi: 11 anni nella seconda metà del XIX secolo, 11 mesi all’inizio del XX, e gli ultimi dieci anni, da quando cioè il Partido revolucionario institutional (Pri) è stato costretto ad allentare la propria presa di potere ereditario e a permettere elezioni veramente libere. Dal 1996 se ne sono svolte due, sempre con un risultato molto serrato in una dialettica che si articola ora su tre partiti principali: uno di centro o centrosinistra, quello degli eredi del Pri, uno della destra storica, il Partido de acion nacional (Pan) e uno dell’estrema sinistra secessionista il Partido de la revolucion democratica (Prd). I risultati sono stati alterni. L’estrema sinistra, ad esempio, ha espresso due volte il sindaco di Città del Messico, mentre il Pan ha mandato alla presidenza Vicente Fox. L’ultima gara è stata estremamente serrata e ha visto l’erede di Fox, Calderón, imporsi con un margine inferiore all’1 per cento dei suffragi. È una costante, a quanto pare, della elezione del XXI secolo un po’ in tutto il mondo: in Germania Angela Merkel ha preceduto di meno dell’1 per cento il socialdemocratico Schröder. E nelle ultime due presidenziali americane George Bush si è imposto con margini anche minori: nel 2004 il 2 per cento dei voti dello stato decisivo dell’Ohio e nel 2000 addirittura 537 schede nello Stato altrettanto decisivo della Florida. In Italia qualcuno sta ancora rifacendo i conti, ma a quanto pare Romano Prodi ha preceduto Silvio Berlusconi per 25mila voti, l’1 per mille. E in Messico nello Stato del Chiapas un compagno di partito di López Obrador ha preceduto di 2.400 voti in tutto il suo concorrente del Pri.

Non per questo gli sconfitti a Roma, a Washington, a Berlino si sono fatti incoronare in cerimonie che ricordano quelle in cui molti anni fa si sceglievano gli antipapi. Più modernamente, gli ultimi due esperimenti democratici in Messico sono stati chiusi da colpi di Stato.

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