«Metto in scena Titus Andronicus per far riflettere»

Matteo Failla

Occuparsi delle opere giovanili di William Shakespeare vuol dire compiere un affascinante viaggio all’interno di una delle più fiorenti «fabbriche della drammaturgia», affrontarne quella sua area più remota in cui affiora lo sperimentalismo che porterà il grande bardo a partorire indimenticabili capolavori.
Il Titus Andronicus, in scena al Teatro Carcano fino al 19 marzo, è una di quelle opere giovanili che vale la pena di esplorare, non solo per coglierne la «brezza» dello sperimentalismo, ma anche per l’incredibile intensità che il testo riesce a sprigionare. E quando a portare in scena un tale testo ci sono, tra gli altri, i nomi di Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini e del regista Roberto Guicciardini, ecco allora che non si può perdere l’occasione per vedere come costoro hanno deciso di trattare il «genio drammatico» contenuto nell’opera; è infatti questo uno spettacolo che affronta le profonde radici della violenza, presentando un dramma di tale entità da poter risultare di forte impatto emotivo. Ne abbiamo parlato con Guicciardini.
Ha compiuto un lavoro di attualizzazione sul testo del “Titus Andronicus”?
«Non è stata fatta nessuna modernizzazione è stato piuttosto compiuto un lavoro di drammaturgia, operando alcuni tagli, cambiando alcune situazioni, ed effettuando spostamenti di scene; solo questo, per rendere lo spettacolo più accattivante».
Il pubblico è forse abituato all’immagine del «Titus» di Julie Taymor, con Anthony Hopkins e Jessica Lange; che impatto ha nel vedere il vero testo teatrale?
«Si trova di fronte a un testo limpido con un ritmo serrato, che spesso porta lo spettatore alla scoperta di qualcosa che forse non immaginava. È un testo fruibile che certo contiene parti che richiamano orrore e violenza; ma il pubblico nell’affrontare questi temi è subito indotto alla riflessione. Abbiamo scelto una messa in scena che si basa su una specie di scoperta progressiva dell’orrore, per accompagnare chi ci guarda nel percorso di riflessione».
Pur essendo un’ opera giovanile si nota una sua elaborata genesi, con riferimenti a Seneca e ad Ovidio.
«È vero, ma non ci sono solo espliciti riferimenti a Seneca e Ovidio; Shakespeare prende ispirazione più in generale dalla tragedia della vendetta. È come se avesse voluto racchiudere in una sola opera tutta le visioni che riguardano la crudeltà pura e semplice, in una forma di teatro che appare certamente ancora sperimentale».
Ma perché tutta questa violenza nel «Titus Andronicus»?
«Il suo era forse un bisogno di confrontarsi con la drammaturgia del suo periodo, una specie di sfida.

La vicenda descritta porta con sé i segni degli stilemi tipici del teatro elisabettiano, e l’intensità passionale dei personaggi ed il tono alto del linguaggio riescono ad imprimere l’impronta di Shakespeare trascinando lo spettatore alle radici dell’ esperienza umana. Ma nello spettacolo non c’è solo il dramma, alcuni momenti hanno una tale intensità tragica da diventare addirittura grotteschi».

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