Come mi chiamo? Decide lo sponsor

Ci sono tanti modi per suicidarsi. Epi Taione, asso della nazionale di rugby del Tonga, ha scelto il peggiore: ha deciso di cambiare, per vie legali, il proprio nome, e di assumere quello impostogli dallo sponsor. D’ora in poi si chiamerà Paddy Power, come l’agenzia irlandese di allibratori che foraggia la sua nazionale. Taione dunque continua a vivere, ma non esiste più.
È singolare che una notizia del genere arrivi dal mondo del rugby, che da qualche tempo viene proposto come antitesi a un calcio ormai malato di soldi e svuotato dei suoi antichi valori. Proprio ieri Repubblica dedicava tre pagine tre (e nella sezione cultura, non nello sport) al rugby, «l’anticalcio che salverebbe l’Italia», come recitava il titolo addirittura in prima pagina. «Sport emblema di forza, lealtà e correttezza»: ma poi arriva un Taione che ti sveglia e ti ricorda che il mercato è mercato per tutti, bellezza.
Non siamo verginelle e sappiamo bene che il mondo gira attorno agli affari, anzi sappiamo che senza affari non si mangia. Sappiamo che pure lo sport - il quale dovrebbe essere intrattenimento puro, divertimento, spettacolo oltre che competizione - non può vivere senza gli sponsor. Infatti abbiamo digerito le scritte sulle maglie delle squadre di calcio, le automobili divenute un mosaico di adesivi, le tute degli sciatori conquistate dalla pubblicità centimetro quadrato per centimetro quadrato, e così via.
Ma il nome no, al nome non si rinuncia. Vendere il nome è peggio di quanto fece Alberto Sordi nel film Il boom, quando vendette un occhio per pagare i debiti. Il nome è il segno stesso della nostra identità, è ciò che ci distingue dagli altri, ciò che ci permette di dire «io». Un uomo rinuncia al proprio nome solo in caso di necessità, se deve sfuggire a qualcuno o qualcosa che lo insegue, e allora deve scomparire, cambia nome per far pensare che non esiste più. Che è morto, appunto.
Lo stesso accade quando siamo noi che vogliamo uccidere qualcuno, voglio dire uccidere l’anima, non il corpo. Evitiamo di pronunciare il suo nome, diciamo «quello là», o peggio ancora. Si uccide un uomo anche quando - capita molto più spesso di quanto si creda - appiccichiamo a qualcuno l’infamante etichetta di iettatore: costui diventa «l’innominabile», noi ridiamo, ma è come infilzargli un coltello nel cuore, vuol dire cancellarlo dall’orizzonte umano.
La vicenda del rugbista Taione ricorda un celeberrimo racconto di Giovannino Guareschi, quello in cui il Nero - operaio comunista duro e puro - per dimostrare il proprio ateismo vende per mille lire la propria anima al vecchio Molotti, un facoltoso agricoltore convinto, invece, dell’esistenza di Dio e dell’aldilà. Il Nero pensa di avere gabbato il vecchio, di avergli spillato denaro in cambio di una cosa che non esiste. Ma quando il vecchio Molotti sta per morire, il Nero è sopraffatto dal dubbio: e se l’anima esistesse? Allora va da don Camillo e lo convince a mediare, ad aprire una trattativa con il Molotti: io gli ridò le mille lire, lui mi restituisce il contratto con cui dichiaro di avergli ceduto la mia anima. Alla fine il Molotti accetta di restituire il contratto ma si rifiuta di riprendersi quelle mille lire, che il Nero infila nella cassetta delle offerte della chiesa. Ma nella versione cinematografica - dove invece che il Molotti è il medico del paese, il dottor Spiletti, ad acquistare l’anima - don Camillo respinge la banconota offerta dal Nero perché quel denaro è sterco del demonio, indegno perfino di essere elemosina per i poveri. Il Nero, allora, brucia le mille lire maledette.


Sapete come si intitola, quel vecchio racconto di Guareschi? Si intitola «Commercio», e nessun vocabolo poteva essere più adatto. Cosa nobilissima, il commercio: ma se siamo arrivati al punto di venderci pure il nome, vuol dire che forse già da qualche tempo ci siamo venduti il cervello.
Michele Brambilla

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