Per raccontare cosa accade nella piéce teatrale Fatti di Fontamara, ispirata al romanzo Fontamara di Ignazio Silone, converrebbe cominciare dalla fine. Da quella frase dello scrittore abruzzese che Michele Placido, in scena al Teatro Franco Parenti fino al 2 aprile (info: 02--59995206, www.teatrofrancoparenti.it), dice prima che il sipario si abbassi: «Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie e la ricostruzione edilizia per opera dello Stato, a causa di brogli frodi furti camorre truffe malversazioni d'ogni specie, apparve alla povera gente una calamità assai più penosa del cataclisma naturale». Parole che suonano tristemente premonitrici. E che Silone scrisse in un saggio, Uscita di sicurezza, raccontando ciò che accadde dopo il terremoto del 15 in Marsica dove perse la madre. Una divagazione, forse, ma che spiega lo spirito dello spettacolo, nato dopo il sisma dell'Aquila da un'idea dellattore pugliese che è anche voce narrante.
Cosa accade in scena?
«Tutto s'incentra su ciò che accade a Fontamara, un villaggio di contadini della Marsica dove da secoli i "cafoni", ovvero i contadini, si trascinano nella miseria, quando un giorno un signorotto di campagna devia un corso d'acqua, suscitando le proteste degli abitanti».
Qual è il suo ruolo?
«Sono Bernardo Viola, il più passionale dei rivoltosi, il simbolo del conflitto tra emarginati e integrati: a lui i compaesani affidano le loro speranze di giustizia contro il potere e la corruzione. Alla fine mi rivelo come Ignazio Silone».
Lei ha allestito per la prima volta questo spettacolo tra le macerie dell'Aquila, nel luglio scorso: cosa è cambiato da allora?
«La gente ha avuto un tetto, per fortuna, ma lo scandalo della ricostruzione scoppiato in queste ultime settimane dimostra quanto purtroppo sia attuale Silone. Quello che emerge, oggi come allora dopo il sisma del 1915, è che le persone in Abruzzo hanno più paura del dopo terremoto».
Non è la prima volta che interpreta Fontamara: la prima fu nel film omonimo diretto Carlo Lizzani nel 1977.
«Là però si raccontava in modo quasi letterale Silone, dando grande evidenza anche ai risvolti politici della vicenda. Qui, invece, c'è una rilettura teatrale e sociale della storia, con un impatto emotivo ancora più forte. E un'attenzione anche a un tema ecologista molto attuale come quello dell'acqua».
Con lei in scena vi sono undici giovani attori di formazione, diplomati all'Accademia nazionale d'arte drammatica Silvio D'Amico: saranno loro il futuro del teatro italiano?
«Spero sia un invito per tutte le persone che hanno a cuore il nostro mestiere a creare nuove compagnie di prosa. E a portare in scena con questi ragazzi non soltanto i testi classici ma anche l'attualità».
Tornerà a Milano per ultimare il film che sta girando da regista sull'ex bandito Renato Vallanzasca?
«No, di fatto ho finito le riprese. Verrò senz'altro a presentarlo. Per il momento mi godo questo rientro a Milano nelle vesti di attore. A parte una serata nel gennaio scorso con L'uomo dal fiore in bocca non salgo su un palcoscenico milanese da dodici ann».
Sarà quasi un ritorno alle origini...
«Sì, sarà come tornare indietro ai tempi del Piccolo Teatro quando Giorgio Strehler mi scelse per interpretare Calibano nella Tempesta di Shakespeare: per me fu un anno e mezzo indimenticabile».
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