RomaLItalia ha bisogno del prete. Non per lestrema unzione, sebbene stia più di là che di qua, ma perché al suo capezzale di malata cronica stavolta arriva Carlo Verdone, con la sua faccia di simpatica gomma e quel ghigno da zio scafato, che sa dove farti il solletico. Nei panni di don Mascolo il comico romano anima, da regista e da protagonista di lungo corso, Io, loro e Lara (dal 5 gennaio in 650 copie e sarà una bella battaglia, dal 15 quando uscirà Avatar), finalmente una commedia equilibrata, che vale più duna radiografia Istat di fine anno. E che, soprattutto, ridà fiato al nostro cinema, stracco dopo le abbuffate dei cinepanettoni, con contorno di polemiche. Si ride, infatti, e ci si immalinconisce con stile seguendo le peripezie del povero servo di Dio, che lascia lAfrica nera, con le avversità duna vita missionaria, per planare in una Roma di matti, dove cè, sì, lenergia elettrica, ma dove le relazioni umane fanno schifo. «È questo lesercizio spirituale da effettuare», gli consiglia un missionario amico, più attratto dalle fettuccine nel suo piatto che dalla di lui crisi spirituale. Nessuno ascolta don Carlo, che bussa alla porta dei suoi familiari, cercando umana comprensione. Il padre, un militare in pensione, con orrendo parrucchino color mandarino, si è risposato con una moldava prosperosa, cioè la badante, che spende e spande i soldi di famiglia. La sorella psicanalista (lottima attrice teatrale Anna Bonaiuto) è una divorziata nevrotica, con figlia adolescente disturbata a carico. Il fratello bancario (il brillante Marco Giallini) dipende dalla cocaina e ha in casa un crocifisso con le lucine pop e unamante incinta. Per fortuna cè Lara (Laura Chiatti, in un ruolo cucito sulla sua spiritosa bellezza), la figlia della serva-padrona moldava. È una ragazza-madre, ironica e seducente, che arrotonda offrendosi alla web chat sexy, però ha un cuore doro, adatto a riunire la famiglia Mascolo, spappolata dallodierna ferocia, intorno al nucleo dun volersi bene, non per forza, ma per scelta.
«Sono un pedinatore di tic, fatti e fragilità italiani e poi ero stanco di fare il borghese con le corna. Volevo raccontare una persona perbene, retta dentro e sentivo che occorreva un azzardo, in un altro sentiero», dice Verdone, che ha dedicato il film (riconosciuto «di interesse culturale») al padre Mario, docente di Storia del cinema, scomparso mentre Carlo ultimava il suo lavoro. «Vattene, che se no sbagli il tuo film», gli ha consigliato il padre dal letto di morte e ieri lartista, emozionato e sulle spine, dopo la proiezione, appariva un po triste. «Ma io sono un malincomico, si sa. Cerco di stemperare la mia malinconia dai tempi di Un sacco bello, però essa mi appartiene. La parola etica non è né polverosa, né bacchettona. Viviamo in un momento in cui abbiamo perso il senso etico delle cose. Perciò è interessante raccontare un sacerdote di oggi, uno dei tanti che non parlano dal pulpito. Sono amico di due sacerdoti e, se parlo con loro, dimentico che sono preti», spiega il regista, legato alla Warner, casa produttrice che gli lascia più libertà, «mentre Aurelio De Laurentiis lavora alla vecchia maniera», cioè mettendo bocca su tutto. E pare che esista la possibilità di far circolare il film in Europa, doppiandolo in inglese. «Cè una parte buona della Chiesa, che andava indagata. In contrapposizione allo schifo della vita doggi. Tanto più che anche gli atei si accostano alla fede. E che alla proiezione privata fatta per la Cei alcuni prelati sono stati molto contenti. Dora in poi farò soltanto film corali, recitando accanto a tanti giovani attori», auspica Verdone, che il 2 gennaio andrà a LAquila, tra i terremotati, con il suo film. «Auguro di ritrovare il buonsenso delle cose: è complicato fare film commedia se incombono su di noi nuvole grigie. LItalia è come se vivesse in una perenne riunione di condominio. Basta guardare la sera certi programmi tv.
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