Politica

"La mia fede senza politica"

Barbara Palombelli. "francesco è il mio santo". La giornalista: "Ho un marito, un figlio e un fratello che si chiamano così. È il nostro punto di riferimento"

"La mia fede senza politica"

Barbara Palombelli non ha bisogno di presentazioni. Per una volta ci si potrebbe risparmiare il pistolotto iniziale, tanto il suo volto è famigliare a chiunque legga i giornali, ascolti la radio, guardi la televisione. Ormai da decenni è una presenza diffusa e costante, senza alti troppo alti né bassi troppo bassi.

Donna mediatica e trasversale come poche: non identificabile con una sola testata, né con un successo particolare o una precisa stagione politica. È di sinistra ed è cattolica, ha lavorato sia con Andrea Barbato che con Giuliano Ferrara, nelle emittenti pubbliche così come in quelle private, con un crescente ecumenismo molto romano modulato sui toni anche vocali della dolcezza e della mollezza, il che ne farebbe la moglie ideale di Veltroni, se non fosse la moglie di Rutelli. Incarna uno di quei rari casi in cui la metà di una coppia vip è proprio la metà esatta, non un quarto o un tre quarti. Fra la moglie giornalista e il marito politico nessuno ha mai capito chi conti, presenzi, decida, guadagni di più. Invece molti pensano di avere individuato chi dei due sia il cattolico più fervente: Barbara, ma forse è solo colpa di un pregiudizio fisiognomico che inchioda Rutelli alla sua faccia da impunito, poco compatibile col misticismo.

Anche il cattolicesimo palombelliano, così ottimista e di sinistra, non convince appieno e un teologo che non fa sconti come Baget Bozzo riesumerebbe il nome di Pelagio, l'eretico che negando il peccato originale anticipò Rousseau e la teoria del buon selvaggio (che oggi è diventata la teoria del buon scippatore, del buon spacciatore, del buon immigrato clandestino...). Ma è meglio far parlare l'interessata.
Sei ottimista anche circa la carne femminile che viene esibita sui poster e sugli schermi? Non auspichi dei freni? Non pensi che la vecchia dileggiata censura garantiva la dignità di uomini e donne meglio dell'odierna licenza illimitata?
«Per carità. Se devo schierarmi mi schiero con i papi che fecero lavorare in libertà i grandi artisti. Sono contraria all'idea che si debbano limitare le immagini: dobbiamo imparare a guardare senza paura. I cristiani hanno una religione umana, interiore, forte: sanno scegliere, non hanno bisogno di troppe prescrizioni. Dobbiamo togliere i veli a chi li porta, non rimetterli noi per competere con altre liturgie».
E allora parliamo di effusioni omosessuali: se insieme ai tuoi figli vedessi una scenetta hard come quelle organizzate al Colosseo, e loro rimanessero turbati, tu che cosa gli diresti?
«Mi capita tutti i giorni, da anni. Nel tragitto che porta a casa incontriamo prostitute e trans che fanno per strada qualunque cosa. I ragazzi chiedono, io spiego. E comunque sul pc o in televisione vedono cose anche peggiori. Spegnere o multare il mondo intero mi pare un proposito ridicolo. Ciascuno di noi vive il suo tempo, è bene attrezzarsi. Detto questo, sogno da sempre un gay pride in abiti normali, da ufficio. Darebbe al movimento omosessuale una forza immensa, invece le baracconate e le provocazioni fanno andare indietro di decenni le loro giuste rivendicazioni civili».
Allora evviva le baracconate e le provocazioni. Ma vorrei uscire dallo scivoloso terreno morale per entrare in quello più propriamente religioso. Quali chiese frequenti?
«Frequento la mia parrocchia, san Gregorio Barbarigo, all'Eur-Laurentino. Negli ultimi dieci anni ci sono stati due parroci straordinari: don Paolo Schiavon, che oggi è vescovo ausiliario di Roma, e l'attuale, don Franco, che avevo conosciuto a san Lorenzo in Lucina».
Qualche santuario? Qualche pellegrinaggio?
«Ho un ottimo rapporto con i frati di Assisi e con quelli di San Giovanni Rotondo. Ho intenzione di fare un pellegrinaggio la primavera prossima. Mi ha convinto il mio direttore alla radio, Sergio Valzania. Da anni ha recuperato questa tradizione antica, che è poi la metafora della vita terrena: muoversi verso un traguardo spirituale, con fatica».
Proseguendo con le privazioni, pratichi qualche astinenza alimentare, ad esempio eliminando la carne il venerdì oppure in quaresima? E fioretti, voti?
«Rispettavo i digiuni quando erano obbligatori. Oggi trovo curioso che tutti i dietologi del mondo prescrivano alimentazioni simili a quelle osservate dai monaci. Si torna sempre da dove si è partiti... Fioretti e voti? Sempre. Ma li lego ad elemosine, mi sembrano più utili di una privazione momentanea».
A quale figura sei più legata? Gesù? La Madonna? Un santo?
«Il santo di famiglia è Francesco: ho un marito, un figlio e un fratello che si chiamano così. E Francesco si chiamava Padre Pio, un grande punto di riferimento. La Madonna della catenina è quella di Pompei».
A proposito di Francesco, chi è più devoto fra te e tuo marito?
«È un percorso parallelo, ma ciascuno tiene per sé le proprie vicende spirituali».
La vostra scelta di adottare dei bambini ha una motivazione di fede?
«È vero il contrario. Nel 1993 siamo stati catapultati in Ecuador per l'adozione del nostro secondo figlio e abbiamo visto da vicino l'impegno dei missionari. Un'esperienza decisiva per il riavvicinamento alla Chiesa, che poi culminò nel '95 con il matrimonio religioso».
Ai tuoi figli hai trasmesso l'educazione religiosa che hai ricevuto?
«Sì, come un'eredità preziosa, di cui poi ciascuno farà quel che crede, in assoluta libertà».
Accidenti a questa libertà. Per fortuna la tua famiglia vanta, se non ricordo male, fior di prelati pre-conciliari, gente severissima, reazionari doc...
«Eugenio Pacelli e la bisnonna paterna Eugenia Pediconi erano cugini molto uniti. Da parte di mia madre invece discendiamo dai Moroni, una famiglia di religiosi lombardi arrivata a Roma nel Cinquecento. Fra i Moroni ci sono arcivescovi ma soprattutto grandi eruditi. Uno di loro, Gaetano, ha scritto un'opera monumentale, il Dizionario Ecclesiastico: le pagine gialle della Chiesa da Cristo alla metà dell'Ottocento».
Infatti in udienza da papa Giovanni Paolo II ti comportasti da perfetta papalina, almeno a giudicare dalle foto. L'abito nero e il velo ti stavano benissimo.
«Avevo comprato un tailleur nero apposta. Incontravamo il Santo Padre una decina di volte all'anno in pubblico, poi lo andavamo a cercare in privato, nelle parrocchie di periferia che lui adorava o a Castel Gandolfo in estate. Ma non era tipo da richiedere veli o inchini, andava per le spicce ed era molto diretto con tutti».
Come candidato premier del centrosinistra io preferirei Rutelli a Veltroni, e non lo dico per compiacerti ma solo perché il primo è cattolico e il secondo, nonostante gli atteggiamenti curiali, no. Ti sembra un modo sbagliato di ragionare?
«Sì. Teniamo la religione lontano dalla politica, se le vogliamo bene. I cristiani hanno una legge interiore più forte delle leggi dei singoli stati. Hanno dimostrato di saper vivere e sopravvivere anche in regimi che li perseguitano, non abbiamo bisogno di teocrazie. Perfino nel Regno Unito si stanno aprendo degli spiragli contro l'identificazione fra potere monarchico e potere religioso, in vista della successione alla regina Elisabetta. In Italia, poi, abbassare il messaggio cristiano al livello dello scontro politico sarebbe davvero un peccato mortale».
Vabbè, allora consoliamoci con la messa in latino. Che ne pensi della sua liberalizzazione?
«Ci sono andata da bambina e so ancora a memoria le risposte. Ho fatto la comunione e la cresima a otto anni, con il rito in latino come si usava allora. Dopo il concilio, in casa ci fu sconcerto per lo spostamento degli altari e per le traduzioni italiane delle preghiere. Certo, quei fogliettini della domenica, tutti strapazzati, sviliscono un po' le parole del Signore e rendono il rito meno solenne. Quindi la liberalizzazione e il dibattito che la circonda mi appassionano.

La nostra religione è plurale, aperta, accogliente, è discussa e fa discutere: per questo è scandalosa e attraente da duemila anni».

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