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"La mia fortuna in Rai? Non capire nulla di politica"

Faceva a Craxi e Andreotti le domande dell'uomo della strada. E da allora Antonio Lubrano è diventato il giornalista "dalla parte dei cittadini"

"La mia fortuna in Rai? Non capire nulla di politica"

L'Italia è un «Paese strano, unico al mondo, l'unico dove l'assurdo diventa regola e il paradosso è il pane quotidiano». Parola di Antonio Lubrano, primo volto televisivo ad avere inventato la figura del giornalista difensore civico. Difensore dagli abusi, dalle truffe grandi e piccole che rappresentano il palinsesto, quello reale, del Belpaese. A 87 anni, magnificamente portati, non ha mai dimenticato quel ruolo consacrato negli anni Ottanta con il suo storico programma Mi manda Lubrano, parafrasi mai più azzeccata della pellicola Mi manda Picone di Nanni Loy ambientata in una Napoli regina di truffe al limite del letterario.

Lui che arriva da Procida, isola di navigatori, ha voluto rievocare ancora una volta il Paese Bengodi dei raggiri con un esilarante volumetto intitolato L'Italia truccata, edito da Castelvecchi.

Lo ha definito un manuale di sopravvivenza per uscire sani e salvi dalla nostra giungla di truffe, ruberie e insidie. Un Paese di vittime e carnefici?

«Niente affatto, quello che emerge dal mio libro, che assembla come un puzzle casi d'attualità alla mia esperienza con Mi manda Lubrano è che in Italia nessuno, o quasi, può dirsi pienamente innocente».

Significa che vige la legge del pesce grande che mangia il piccolo?

«Significa che il nostro è sì il Paese delle truffe, ma è soprattutto un Paese di furbi e furbetti, un Dna che ci fa cadere con più probabilità che altrove nell'illusione (e nella trappola) dei facili guadagni. E allora ecco il colmo: l'italiano che diventa vittima della sua stessa furberia».

Faccia qualche esempio.

«Basti guardare all'evoluzione tecnologica della truffa, quella che si avvale della rete internet, sempre più serbatoio di trappole, oltre che di fake news. Gli adescamenti, sia economici che amorosi, trovano ahinoi terreno fertile, anzi fertilissimo, nella propensione tutta italica alla scorciatoia. L'illusione di facili guadagni o di facili amori parte dallo stesso triste presupposto, quello di arricchirsi senza sforzo ma semplicemente con un clic».

Come si è appassionato al mondo delle truffe? Ovvero, quando ha scoperto la sua vocazione di... difensore civico?

«Be', bisognerebbe risalire agli anni Settanta, quando fui assunto in Rai al Tg2 dall'allora direttore Andrea Barbato. Provenivo dal Radiocorriere tv e, in quanto esperto di spettacoli, fui messo in forze alla redazione cultura. Già allora mi feci apprezzare per ironia ed estrema chiarezza. Successe che l'allora capo della redazione politica cercava un giornalista che... non capisse nulla di politica. Fui scelto io e iniziai a intervistare tutti i grandi politici della prima Repubblica, da Andreotti a Craxi, da Fanfani a Spadolini. Con le mie domande da uomo della strada, cominciai a scardinare le trappole e le insidie del politichese, e l'audience schizzò alle stelle, al punto che...».

Al punto che?

«Nell'87 il direttore Antonio La Volpe mi affidò una rubrica, in coda al Tg, che fu intitolata, non a caso, Diogene».

Come il filosofo greco che girava con la lanterna in mano anche di giorno e, a chi gli domandava il perché, rispondeva: sto cercando l'uomo...

«Appunto. Quel programma nacque per essere il quotidiano del cittadino. Quando ho cominciato, sono andato in onda con un maglione, anziché con la giacca e la cravatta. Il direttore mi disse: perfetto, non cambiare mai look. E così feci, perché per entrare davvero nelle famiglie e nei loro problemi, dovevo anche apparire come uno di loro. Il risultato fu che, grazie a Diogene, il Tg2 passò da due milioni e mezzo a tre milioni e mezzo di telespettatori».

Con quali armi è riuscito a conquistare la fiducia del pubblico?

«Secondo me è stata un po' la mia faccia ironica, il modo di parlare semplice ma senza facilonerie, e forse anche il mio accento, la mia napoletanità garbata e credo rassicurante».

Tanto che, addirittura, le intitolarono un programma, Mi manda Lubrano, una personalizzazione inedita per quei tempi.

«Sì, l'idea di un programma contro le truffe fu dell'allora grande direttore di Raitre Angelo Guglielmi, ma l'autrice era Anna Tortora, la sorella di Enzo. La scelta del conduttore cadde subito su di me, anche se La Volpe, che mi aveva scoperto con Diogene, non voleva perdere una gallina dalle uova d'oro. Alla fine però dovette cedere perché mi proposero di dimettermi dalla Rai e firmare un contratto di collaborazione artistica che mi garantiva compensi ben superiori, anche se allora non giravano certo gli ingaggi favolosi di adesso. Be', in sette anni Mi manda Lubrano passò da due a sei milioni di telespettatori. Era anche la prima volta in assoluto che un programma sui diritti dei cittadini veniva trasmesso in prima serata».

Il nome del programma si ispirava al film «Mi manda Picone» di Nanni Loy, lo stesso regista di Pacco, doppio pacco e contropaccotto, guarda caso.

«E di pacchi e imbrogli ce ne arrivarono a migliaia. C'era una redazione intera che passava tutto il giorno a smistare le lettere di denuncia dei cittadini. Alcune, per la verità, contenevano soltanto amari sfoghi».

Si ricorda qualche caso eclatante?

«Tantissimi. La grande scommessa era riuscire a portare in trasmissione furbetti o autentici truffatori da noi smascherati. Una volta arrivò negli studi Rai un piazzista di Valenza Po che da un'emittente privata proponeva l'acquisto di smeraldi. In realtà molti telespettatori avevano segnalato che si trattava di pietre fasulle, praticamente fondi di bottiglia, circostanza poi confermata da un gemmologo. Smascherato, il piazzista tentò di lanciarmi una torta in faccia in diretta. Per fortuna mancò il bersaglio, e a fine programma venne a prenderlo la finanza».

Allora uno dei suoi inviati era un giovanissimo Fabio Fazio. Era bravo?

«Me lo ricordo bene, era un ragazzo già allora dai toni estremamente garbati. Pareva quasi un po' timido ma in realtà capii che avrebbe fatto strada».

Poi nel '97 lasciò mamma Rai per andare a Telemontecarlo, la tv di Cecchi Gori.

«E fu un errore. Ma la proposta era stata molto allettante: andare a dirigere il tg di Montecarlo e con un'offerta notevole per quei tempi. Accettai, ma ben presto mi resi conto che non avevo tutta la libertà, e soprattutto i mezzi, per fare le inchieste che volevo. Dopo due anni decisi di andarmene».

E tornò a lavorare per la Rai, questa volta per dedicarsi alla sua seconda grande passione, la lirica.

«Già, in viale Mazzini se lo ricordarono e mi affidarono una trasmissione intitolata All'Opera. La lirica in Rai non fruttava più di 200mila spettatori e io riuscii a portarli a un milione e due».

Come fece?

«Mi inventai un ruolo che potremmo definire alla Piero Angela, che è un mio grande e stimato amico. Attingevo all'immenso patrimonio delle teche Rai e, con la tecnica del chroma-key entravo anch'io nella scena per raccontare trama e aneddoti di un'opera. In questo modo facevo partecipare virtualmente anche i telespettatori alla rappresentazione e ne catturavo la curiosità. Il record di audience ci fu con il Don Giovanni di Mozart».

La tv di oggi le piace, la guarda?

«Francamente devo dire che non mi riconosco nella pletora di programmi basati sul gossip e sui toni sguaiati. Trovo che in questi ultimi anni ci sia stato un imbarbarimento nella forma e nei contenuti. Il caso del finto matrimonio di Pamela Prati mi pare emblematico dell'attuale uso che si fa della televisione. Però ci sono anche programmi che guardo con piacere, come Nessun dorma, condotto dal bravissimo Massimo Bernardini, e naturalmente il tg di Enrico Mentana, grande giornalista che ho avuto anche come vicedirettore al Tg2. Non a caso il suo telegiornale è quello che fa i migliori ascolti».

Se Mentana la chiamasse al suo tg ci andrebbe?

«Be', non mi dispiacerebbe affatto».

E in tv oggi vede qualche difensore civico che le assomiglia?

«Devo dire che apprezzo molto Le Iene, un bel programma di servizio e condotto in modo anche divertente».

E dei politici di oggi che cosa ne pensa, lei che in vita sua ne ha intervistati così tanti?

«Come sopra. Penso che il livello adesso sia a dir poco imbarazzante, sia per quanto riguarda i toni arroganti sia per quanto riguarda la scarsa cultura e preparazione politica. Se penso che durante la prima Repubblica si criticavano come estremisti personaggi come Almirante. Rispetto ai personaggi che vedo oggi, quelli erano dei giganti della politica e anche della diplomazia...».

Oggi in televisione la si vede di rado, in compenso calca i palcoscenici, con la lirica ma anche con la musica...

«In questi anni ho portato nei teatri alcuni spettacoli, fatti sempre alla mia maniera, che hanno riscosso un discreto successo di pubblico. Uno è stato Il Buffo dell'Opera in cui raccontavo, al fianco di veri tenori e soprani, gli aneddoti più divertenti legati a un'opera. Un altro è Chi ha paura di..., messo in scena con l'ensemble barocca dell'Orchestra Verdi di Milano. Tra un brano e l'altro, intervistavo il direttore Ruben Jais con domande del tipo: ma che cos'è una fuga? Oppure: che significa il contrappunto? Alla fine dello spettacolo alcuni tra il pubblico venivano a ringraziarmi e a dirmi: finalmente ho capito».

Ha recitato anche i Promessi Sposi in napoletano.

«Si intitolava Manzoni anima e core ed è uno spettacolo tratto da I «Promessi Sposi» in poesia napoletana scritto da Raffaele Pisani. Abbiamo selezionato dieci personaggi manzoniani e tra un ritratto e l'altro venivano cantati brani classici del repertorio napoletano: per Don Rodrigo Guapparìa, per Don Abbondio Palummella, per Renzo e Lucia Anema e core...».

Si è cimentato anche con il jazz.

«Vero, all'Auditorium di Milano ho condotto lo spettacolo musicale Secondo me Napoli, diretto dal compositore jazz Sandro Cerino con l'Orchestra Verdi».

Invece alla televisione ha detto definitivamente addio?

«Assolutamente no. Con Edoardo Romano, l'attore dei Trettré, ho realizzato per Canale 21, gettonatissima emittente campana, un programma sulla canzone napoletana intitolata Cara Napoli ti scrivo. Con Romano ci unisce la nostalgia per la città natale, io milanese d'adozione e lui brianzolo».

Lei è napoletano di Procida con un cognome che si potrebbe definire scaramantico: Lubrano di Scampamorte.

«A Procida ci sono sei o sette cognomi che hanno un'etimologia legata al lavoro o alle fortune del capostipite. Io sono discendente di navigatori e mio padre, che fu capitano mercantile, scampò a ben due naufragi. Quanto a me, a quasi 88 anni, non mi posso lamentare e vado ancora in palestra tre volte a settimana».

Ma perché lei, procidano con una lunga esperienza a Roma, alla fine ha scelto di vivere a Milano?

«Per amore. La mia seconda moglie, Mariella, è lombarda. La conobbi in Rai ai tempi di Mi manda Lubrano dove lei era la responsabile di produzione. Mi seguì a Roma ma appena abbiamo potuto, dieci anni orsono, abbiamo deciso di venire qui. Una scelta felice, perché io vengo da una città, Napoli, che è adorabile ma dove la parola regola è sconosciuta.

Qui invece, sotto la Madonnina, le regole esistono eccome e - incredibile a dirsi visto che siamo in Italia - molto spesso si rispettano pure».

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