«La mia malattia in un diario lungo tre anni»

Se esiste una formula chimica del dolore, allora Giacomo Cardaci l'ha trovata. Ventiquattro anni, milanese, già promettente liceale al Parini, Cardaci studia Giurisprudenza. La formula di Giacomo è lunga tre anni, dal 2006 al 2009, durante i quali si è ammalato di tumore, è guarito, si è riammalato di nuovo, ha trovato la forza di rialzarsi ancora. E di scrivere. «La formula chimica del dolore» è il titolo del suo ultimo romanzo, da qualche giorno in libreria, edito da Mondadori (sarà presentato il prossimo 13 aprile, ore 18, alla Fnac di via Torino). Sì, romanzo, ché Giacomo ha preferito raccontarci dei suoi tre anni fuori e dentro il reparto di oncologia del San Raffaele attraverso un alter ego, il giovane Filippo, alle prese «con la sua macchia» (il cancro) e con un manipolo di comprimari («compagni di guerra»): la signora della stanza 112 che non smette di rantolare di notte, il compagno di stanza che puzza, la dottoressa piacente, il medico distratto, le infermiere straniere e tutto quell'universo che compone la vita ospedaliera che può conoscere e descrivere solo chi vi ha passato parecchio tempo.
I dettagli contano, nella formula del dolore. «Ho sentito il dovere di conservare una memoria storica di quello che mi stava capitando - racconta oggi Cardaci -: ho subito tenuto un diario di questa esperienza terrificante perché credo che nelle vicende drammatiche la forza dei dettagli faccia la differenza». Il tunnel («Lo esci, lo esci», gli diceva in stentato italiano una signora siciliana che «tifava» per la sua guarigione) ha inizio con insolite tachicardie, febbri e sudorazioni: «Non esiste un'età giusta per ammalarsi - racconta Cardaci -, ero piuttosto bravo all'università e molto ansioso: all'inizio i medici pensavano fosse stress». Solo in sede operatoria si capisce che la tachicardia di Cardaci è la conseguenza della presenza di una grande massa tumorale sotto lo sterno, da rimuovere immediatamente: «Una storia pazzesca, surreale - continua -: raccontarla, anche cogliendone i lati grotteschi, mi è servito. Non oso parlare di potere terapeutico della scrittura, ma credo che permettere ai malati di compiere attività manuali, come la pittura, la musica o un hobby durante la terapia, renda la chemioterapia più efficace».
Di cicli di chemio Giacomo Cardaci ne ha fatti tanti: nel libro li racconta con il distacco e l'ironia cui ci aveva abituato nel suo fortunato esordio letterario, «Gli alligatori al Parini» che narrava in modo surreale l'allagamento, ad opera di alcuni suoi compagni poi sospesi, del noto liceo milanese. Della leggerezza dei 18 anni troviamo ancora qualche traccia, specie nelle descrizioni di medici e pazienti, ma questo ultimo libro è pervaso da un tono più dolente, più maturo: quello di un ventenne milanese come tanti che è stato costretto a vivere in ospedale per quasi tre anni. «Tumore: persino la parola spaventa - continua Cardaci -: la malattia è un tabù per la nostra società, figurati per dei ragazzi. Il tumore non è un evento scientifico, ma un evento umano che impegna l'anima e ammala i pensieri».


Ora Giacomo Cardaci è «in remissione da oltre un anno», sta bene, eppure ti stupisce che un ragazzo così giovane conosca a menadito termini medici, terapie, composizione dei farmaci. Ha ripreso l'università, sta già lavorando a un nuovo libro, non sta mai fermo. «Il dolore mi ha insegnato che la vita è bella anche quando è brutta», dice con la semplicità disarmante dei suoi 24 anni.

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