Un dramma dell'assurdo. Ho capito di esserci finito dentro quando preso dall'esasperazione ho aperto il portellone della carrozza, ho fatto un salto di un metro e mezzo e mi sono messo a camminare nei campi. Il treno era inclinato su un fianco perché ci eravamo fermati su una curva, da ore le porte dei bagni erano serrate, l'aria era diventata irrespirabile e - nonostante i divieti imposti dal personale Trenitalia, che ci chiedeva di non uscire dalla gabbia in cui eravamo chiusi - io e altri, per qualche minuto, siamo fuggiti dalla prigione. Ma è stato un privilegio che solo in pochissimi ci siamo concessi, a costo anche di farci male tentando questa piccola fuga. Le donne, i bambini, tante signore anziane, per ore e ore non hanno avuto accesso ai servizi igienici, niente elettricità e niente riscaldamento. Qualcuno è crollato e caduto in vere e proprie crisi di panico. Altro che Trenitalia. Noi sabato abbiamo viaggiato su Trenafrica. E non da passeggeri o da cittadini di questo Paese, ma come profughi.
Ti svegli la mattina pensando che sarà una giornata come le altre, hai bisogno di raggiungere Roma per lavoro, solita routine. Sali sulla carrozza a mezzogiorno, il treno parte alle 12.17 e nellarco di cinque ore ti ritrovi in un incubo, in una farsa. Sì, perché credevi di correre sullalta velocità, e invece sei fermo nella campagna. Ore 17.15. Niente informazioni, perché lunica spiegazione che ti danno è «guasto tecnico». Un guasto che ha significato percorrere 500 chilometri in venti ore.
I telefonini a un certo punto smettono anche di squillare, cominciano a scaricarsi senza elettricità, e i pianti dei bambini si fanno più insistenti. Per due volte un locomotore tenta di trainarci (prima alle 21.30, poi alle 23) e per due volte il gancio si rompe. Intanto non arrivavano né viveri, né coperte.
Ma non finisce qui: dopo il danno, la beffa. Percorriamo decine di carrozze, cercando di darci aiuto fra noi, di dare una mano alle signore più anziane cariche di bagagli. Facciamo 150 metri a piedi nel freddo e al buio, raggiungiamo un nuovo treno che avrebbe dovuto riportarci a destinazione e anche questo, dopo poco, si ferma.
Prima ti prende lincredulità, poi il nervosismo, il senso dellabbandono e infine la rabbia. Non tanto per te, ma per i più piccoli e i più anziani. «Nemmeno le bestie vengono trattate così», ci diciamo tra noi. Qualcuno invoca Beppe Grillo, qualcun altro tenta di rassicurare i familiari. Una ragazza ucraina quasi si commuove: ha perso il volo per rientrare a casa per le vacanze. Accanto a lei cè anche un militare italiano. Era diretto in Kosovo, ma sarà per unaltra volta.
Passano le ore e nemmeno lagognato intervento della protezione civile cambia le cose: alle 3.30 del mattino arrivano, ma con loro nemmeno una bevanda calda, solo qualche bottiglia di acqua naturale e tè freddo. Fuori la temperatura è sotto lo zero...
Eppure attorno a noi, insieme a noi, vedo grande dignità. Vedo un pezzo dItalia che lavora, che viaggia per ragioni professionali o familiari e che è vittima di un sistema impazzito. In cui i controllori allargano le braccia e ti dicono: «Io il mio dovere lho fatto. Ho avvisato i dirigenti, altro non mi viene consentito di fare». La dignità dei passeggeri da una parte e limpotenza dallaltra. In mezzo la disorganizzazione, lassenza delle minime capacità di intervento sullemergenza e larroganza di una società che dovrebbe essere al servizio dei cittadini e che invece sembra farsene beffa.
In 450 non ci diamo pace.
Come si fa ad accettare levidenza? Come a spiegare che sei salito su un treno a mezzogiorno e sei sceso alle 7 del mattino successivo per percorrere appena 500 chilometri? Come si fa a non pensare che quello non è stato un viaggio, ma un sequestro di persona?
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