«La mia Oriana inedita per le strade di New York»

Forse tutte le storie legate a Oriana Fallaci sono destinate ad avere in sé un certo spirito guerriero. O forse semplicemente bisogna saper aspettare per conoscere i dettagli. Un dettaglio della vita di Oriana di cui quasi tutti sono ignari è che esistano splendide fotografie, l’ultimo reportage sulla sua vita, realizzate da un fotografo che ha trascorso insieme a lei giorni e giorni. E che questo fotografo non è, come sempre si è detto, Oliviero Toscani. Ma il reporter Gianni Minischetti: partenza alla Publifoto, l’agenzia del Giorno oltre quarant’anni fa, poi i reportage per Epoca in Irlanda del Nord, Eritrea, Beirut, Israele, Taiwan, Cina, Hiroshima post-atomica, Falkland. E poi freelance e New York e Berlino. Altro dettaglio: Minischetti è l’autore della foto di Oriana a New York, con le Torri Gemelle sullo sfondo, sotto il Ponte di Brooklyn. Quella che ha illustrato l’articolo-caso La rabbia e l’orgoglio, uscito sul Corriere della Sera il 29 settembre 2001. Quella che è rimasta nel cuore e nella mente di tutti come l’ultima icona di una Fallaci vitale e battagliera. Questa immagine, insieme ad altre, molte inedite, è la testimonianza di un incontro unico, che ora è stato raccolto nel volume Oriana Fallaci in New York. Una storia d’orgoglio, in uscita per Sperling e Kupfer il 13 settembre (giorno in cui verrà anche presentato a Milano, Mondadori Multicenter, ore 18.30).
Sono trascorsi dieci anni dall’11 settembre. Cinque dalla morte di Oriana. Lei ha firmato l’ultimo servizio fotografico sulla giornalista e scrittrice e nessuno lo sa. Un dettaglio, in fondo. Perché è stato taciuto per tutti questi anni?
«Mai una volta è stata rivelata la paternità, da parte del Corriere e dei suoi direttori o di RCS, di quella famosa fotografia. Lei, con dietro le Torri Gemelle, ormai una foto storica. Quell’articolo senza quella foto a parlare, non sarebbe stato lo stesso. Nel catalogo della mostra a lei dedicata quattro anni fa, ambiguamente si diceva che le foto, e quella della Rabbia e l’orgoglio era esposta in gigantografia, erano di Toscani. Le mie foto con il nome di un altro. E io sono un giornalista professionista, l’altro è un fotografo pubblicitario, non un reporter».
Perché volle proprio Lei?
«Mi ha scelto attraverso la sorella Paola e nel dicembre del 1991 mi ha voluto a New York. Amava la fotografia e aveva bisogno di immagini con un taglio giornalistico. Mentre scattavo, mi ero dimenticato della collega: era una grande scrittrice di cui dovevo tirar fuori l’anima. E queste sono state le ultime. Avrebbero dovuto essere usate, e alcune lo sono state, per i grandi servizi delle testate straniere su di lei: Stern, El País. Feci oltre 500 scatti, poi le scegliemmo insieme».
Ma le altre le ha conservate.
«Tutte, è ovvio. Man mano che scattavo le foto durante il giorno, di sera ci trovavamo a casa sua a proiettarle sulle pareti, contro un muro. E lei con la sigaretta indicava: “Sì”, “Sì”, “No”. De Bortoli scrisse che le portò lo champagne per La rabbia e l’orgoglio. Ma amava il passito, la Malvasia delle Lipari. La compravo a Milano, all’enoteca di via Friuli, e quando arrivavo a New York, dove poi andai a vivere per anni, gliela portavo. Anche in quelle serate, si metteva accanto la bottiglia di Malvasia e si divertiva a scegliere le foto».
Come vi eravate conosciuti?
«È stato un avvicinamento progressivo. Conoscevo già la sorella Neera che lavorava per Oggi e facevo le foto dei suoi pezzi di argomento sociale. Il corridoio di Oggi era lo stesso dell’Europeo perciò ogni tanto la si incrociava, l’Oriana, che aveva lì l’ufficio, negli anni Settanta. Poi ci siamo incrociati nella guerra di Beirut e le mie foto hanno illustrato un suo servizio sulla guerra in Kuwait, quando bruciavano i pozzi. Poi mi scelse per il reportage».
Come organizzavate le giornate?
«“Oggi stiamo in casa”, mi diceva, “e facciamo una serie di foto in studio”. Allora lei si metteva alla scrivania e lavorava per davvero. In quei giorni aveva appena pubblicato Insciallah e le immagini servivano anche per una grande promozione del libro. Oppure: “Andiamo per strada, in Park Avenue o in Fifth Avenue, quello che sia, e tu scatta come se non ci conoscessimo”. “Va bene, allora tu cammina e io ti vengo dietro come se ti avessi incontrato per caso”. E facemmo la serie di foto per New York, in cui lei è molto intensa, non guarda mai in macchina e si sente al centro del mondo, il luogo da cui partivano tutte le sue idee».
Come voleva vedersi?
«Tutti dovevano capire che lei non era solo una giornalista, ma un personaggio che aveva qualcosa da dire. Scartava sempre le foto in cui si vedeva scoperta o banale, in cui si potesse notare una sua debolezza. Eppure era molto femminile. Unghie curate, anello di Cartier da milioni a una mano, un rubino all’altra. E invece poi, sotto la camicetta di seta, aveva la cintura della giornalista di guerra. Se la portava dietro sempre, dai tempi del Vietnam. Una cintura vecchia, rovinata, tagliata, che non ha niente a che vedere con il resto. Questa era lei».
E intanto che lei scattava Oriana si raccontava?
«Quasi per niente. Taceva ogni cosa che fosse intima. Certo le piaceva andare in giro, essere riconosciuta, amata, anche abbracciata nei posti di New York in cui era habitué: al Riverside Café, dove chiese giacca e cravatta per me perché anch’io potessi entrare, al Plaza Hotel, dove andava a fare colazione e portava la famiglia, gli amici, nella sala delle Palme, al San Domenico, dove le cucinavano le tagliatelle, gli spinaci con le uova, i piatti alla toscana.

Però, anche se era molto generosa, si concedeva a pochissimi. Ecco perché quando dopo la sua morte tutti dichiaravano di essere stati suoi amici, mi sono detto “Ma amici di chi?”. Io non mi sognerei mai di dire che sono stato un amico dell’Oriana».

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