Cultura e Spettacoli

«La mia vita agra con Luciano»

Partiamo dalla fine. Anzi, da dopo la fine. «No, inediti non ce ne sono. Tutto ciò che ha scritto è stato stampato, ristampato, riesumato. Anche troppo. Be’, a parte una cartolina da New York scritta davanti alla casa di Edgar Allan Poe con Gabriele Baldini, l’anglista marito di Natalia Ginzburg. Poi la copia di un telegramma inviato a Camilla Cederna: “Per Pinelli ci sarò sempre”».
Maria Jatosti, il suo Luciano Bianciardi se lo tiene ben stretto. Come negli anni in cui, insieme, battagliavano contro «la Fumigante», come la chiamava lui: la Milano del pre-boom, del boom e del post-boom. Se lo tiene ben stretto, ma anche ce lo regala. Generosa, puntigliosa, e con più d’una punta d’amarezza, nel ricordare i momenti belli e quelli brutti, che furono tanti.
«Ci conoscemmo nel ’49 o nel ’50, a Livorno, a un convegno nazionale dei Circoli del Cinema. Lui rappresentava il Circolo di Grosseto, io ero la segretaria della Federazione. Io vent’anni, lui ventisette, sposato dal ’48 e padre di un figlio, Ettore, di un anno o due. Andammo avanti un paio d’anni. Ci scrivevamo molto, lui da Grosseto, io da Roma. Poi s’interruppe per un po’ con il suo rientro all’ovile domestico... Nel maggio ’54, dopo l’esplosione delle miniere di Ribolla e Gavorrano dove morirono tanti suoi amici minatori e badilanti, Luciano sentì il bisogno di ritrovarmi. Era per lui un momento di rabbiosa sofferenza e di rivolta e sentì l’urgenza di condividerlo con me. Dopo dieci mesi lo raggiunsi a Milano per restarvi fino al ’71».
Non era ancora «da bere», quella Milano. E nemmeno da mangiare, per molti. Nel senso che mettere insieme il pranzo con la cena era spesso un’impresa. «Eravamo poveri ed essere poveri a Milano è difficile. Tutto ciò che si guadagnava, lavorando in due, si divideva a metà con la sua famiglia rimasta a Grosseto. Ma era anche bello vivere da poveri e spartire utopie, sogni, entusiasmi, amore e fame con altri poveri che si chiamavano Ugo Mulas, Carlo Bavagnoli, Mario Dondero, gli artisti e scrittori del bar Giamaica: Crippa, Dova, Manzoni, Cavallini, Lombardi, Saba Sardi, Fabrizio Onofri...».
Lavoro duro, lavoro culturale, lavoro a cottimo. «Di giorno, finché durò, c’era la casa editrice del comunista miliardario Giangiacomo Feltrinelli. Una contraddizione vivente, un personaggio a suo modo simpatico. Ma Luciano mal sopportava regole e costrizioni (gli orari, il cartellino, il pensare su ordinazione). Poi il rapporto si trasformò in un contratto di collaborazione esterna basata sulle traduzioni. Quello che era stato all’inizio un lavoro extra diventò la nostra attività principale: otto, dieci ore al giorno in tandem a picchiare sulla Olivetti M40 acquistata a rate, a consultarci sulla soluzione migliore che non sempre era la più fedele. Una montagna di libri, alcuni dei quali tradotti esclusivamente da me (Pearl Buck, Drieu La Rochelle, Jean Duché...). L’intesa era perfetta. Si andava come treni. La domenica, per riposarci, lui scriveva i suoi libri, io i miei».
Sul tandem si pedala forte, intensamente, appassionatamente, con violenza anche. Poi arriva un figlio, Marcello, e le cose cambiano. «Nacque nel ’58. Il tandem si sciolse: lavoravamo separati, con orari diversi. I problemi logistici sorti con questo terzo figlio - nel ’56 era nata Luciana a Grosseto - acuirono quelli già esistenti che turbavano Luciano. La fragilità psicologica, la paura di non farcela nello scontro con la città vissuta come nemica, la nostalgia di un mondo idealizzato dalla lontananza e dall’abbandono colpevole, il lavoro vissuto come alibi alla graduale tendenza a rinchiudersi in un guscio. In questo quadro maturò il suo capolavoro, La vita agra. Per qualche tempo aveva tenuto sul comodino la fotografia di Ettore, un ragazzino lungo e magro con due mani grandi. E nel portafogli aveva la foto della moglie Adria in costume da bagno. Poi tutto si ridusse a qualche lettera: richieste e invii di denari, qualche rara visita, una o due volte l’anno...».
Bianciardi «diventa» il Bianciardi che conosciamo dai suoi libri e dai suoi innumerevoli articoli sparsi qua e là: l’osservatore curioso e acuto della società. «Dalla madre maestra aveva ereditato il rigore intellettuale, dal padre bancario l’amore per il calcio e per il Risorgimento, in particolare per Garibaldi. Ma gli interessava, da conoscitore, il cinema. Amava le canzonette - aveva tutti i dischi, dedicati, di Natalino Otto - e la musica colta: suonava piuttosto bene il violoncello che aveva studiato per otto anni. E leggeva moltissimo: contemporanei, memorialisti, saggi di linguistica, di semantica... Aveva una conoscenza infinita della lingua e ne faceva un uso ricchissimo. Non a caso prediligeva, fra i nostri scrittori, Gadda. Ma amava anche Cancogni e Cassola, al quale lo legava un’antica amicizia. Fra i poeti, Montale, e una passione viscerale per Dante».
E gli altri? Il mondo esterno? «Nelle frequentazioni non era selettivo: suoi amici erano Vittorio Sereni e il calzolaio sotto casa, Carlo Ripa di Meana e Mario Acquarone, Mario Terrosi di Grosseto ed Enzo Jannacci, il bagnino del Cinquale e Carrà, Guttuso e Cavallini pittore di Piombino. Poi Dario Fo, Enzo Tortora, Umberto Eco, Camilla Cederna, la prostituta dell’angolo. Frequentava Domenico Porzio, Arpino, Anna Del Bo Boffino, Sergio Pautasso, Ugo Pirro e Oriana Fallaci, ma anche il barista, il barbiere, l’elettricista. Ma i più cari amici credo fossero quelli sepolti dal grisù nelle viscere di Ribolla e quei due o tre che aveva lasciato a Grosseto-Kansas City e con i quali intratteneva rapporti epistolari. Non gli piacevano, invece, i burocrati, i professionisti della politica, gli “autorevoli”, i perdigiorno frenetici, i bauscia (preferiva semmai i ligera), i supponenti, i venditori di fumo, i mediocri, i tafanatori esattori di tasse e gabelle. Non gli piacevano le donne secche e forsennate. Non gli piacevano Nino Benvenuti, Giulio Andreotti, Lando Buzzanca e Giovan Battista Montini. Ma neanche Pannella gli stava troppo simpatico».
Suo malgrado, il successo della Vita agra fa di Luciano un autore «di successo». Intorno a lui e alla sua figura, dice Maria, si scatena «una baraonda». Lei sa che il suo uomo, in fondo, è fragile, e che deve difenderlo dalle insidie. «Nel ’64 mi trasferii con Marcello a Rapallo e Luciano ci raggiunse. Il tempo dilatato, la sonnolenza della provincia rivierasca lo ricacciarono, dopo la breve sbornia mondana, nel suo mondo di ombre e di fantasmi con conseguente accelerazione nell’uso smodato di alcol. Ma furono anche gli anni dei viaggi: nel ’68 il Magreb, da Tripoli a Fez, raccontato in Viaggio in Barberia. Ci fu poi Israele, con Acquarone, al seguito di una squadra di pallacanestro. Luciano tornò molto impressionato e parlammo a lungo della drammatica questione israelo-palestinese».
La quantità di pane (e di companatico) è aumentata. L’amore c’è ancora. Le passioni letterarie, pure. E in casa Bianciardi c’è un ospite a volte invadente, a volte soporifero, a volte intelligente, a volte volgare: la tv. «Luciano teneva rubriche, box e boxini su vari settimanali: ABC, AZ, Le Ore, occupandosi di argomenti vari, ma soprattutto di critica televisiva. Di tv si era già occupato anni prima per l’Avanti!, praticamente inventando un nuovo mestiere, una nuova specializzazione. Seduti tutti e tre in salotto davanti all’elettrodomestico più amato dagli italiani, si rubava con gli occhi, si commentava, si discuteva, mentre Luciano preparava mentalmente i pezzi, migliaia di pezzi. Una sera a cena da noi Walter Chiari inventò uno slogan di successo per la Simmenthal. Il progetto della Domenica sportiva di Enzo Tortora nacque in casa nostra, a Milano, in via Domenichino 2. E di Enzo diventammo e restammo grandi amici».
Traduzioni, racconti, romanzi, articoli. Bianciardi Luciano da Grosseto ha scritto molto, e molto bene. Rimase senza parole, invece, di fronte a un titolo, semplice ma inquietante. «Aveva comprato un quaderno a righe e nella prima pagina, in alto, con grafia debole, tremolante aveva scritto: La distonia. Doveva essere la cartella clinica del suo male oscuro, ma è rimasto solo un titolo». Null’altro? Davvero null’altro oltre a quella cartolina da New York e a quel telegramma? «Ci sono le agende-diario con i loro oscuri segreti. Ma quelle non si toccano». Maria se lo tiene ben stretto, il suo Luciano. Non è gelosia, non è egoismo. È la fedeltà a una vita che fu appassionata, dura, scomoda.

Ma soprattutto agra.

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