Michael Jackson continua a morire. A rate

Ma quando la smetterà, poveretto, di morire a rate? E quando la pianteremo, noi, di fare questa domanda retorica, maliziosa, un po’ cattiva anche? Ieri, sarebbe stata una buona occasione, sia per lui, Michael Jackson, sia per noi. Chiudere baracca e burattini e andarsene tutti in pace, obbedendo all’invito del prete di turno. Lui, Jacko, con i suoi passettini sincopati, sculettando da solo sulla strada del paradiso musicale, e noi in ordine sparso a farci i fatti nostri, senza più rimestare nelle chiacchiere fangose che tanto somigliano alle sabbie mobili: più ti muovi, e più sprofondi.
Invece no. Anche ieri, giorno che sarebbe stato (anzi lo è, per chi crede o finge di credere che il re del pop sia ancora vivo e vegeto da qualche parte) del suo cinquantunesimo compleanno, si è perso tempo, si è cincischiato, ci si è trascinati fra un urletto e una lacrima di circostanza, fra un Propofol, l’anestetico fatale, a quanto pare, e il canonico speciale di Mtv Italia. La festa, l’ennesima, in sua memoria al «Nethermead Meadow» di Prospect park, a New York, sponsorizzata da Spike Lee con gli spiccioli per le sigarette, 11mila dollari, è stata una messa laica per migliaia di persone. Una stanca recita cui l’etichetta di «Michael Jackson Day» non è riuscita a trasmettere il timbro, la targa dell’agognata ufficialità. Per il semplice fatto che a Parigi, Londra, San Pietroburgo e chissà in quanti altri posti andava nel frattempo in scena lo stesso spettacolo.
Quanto può durare, la morte di un uomo? Il cuore di chi gli ha voluto bene gratis, senza i cascami dell’eredità, dei diritti, dei testamenti spirituali scritti sempre sulla sabbia, risponderebbe: da qui all’eternità, perché i sentimenti non hanno scadenza. D’altra parte il calendario, nel caso in questione, annuncia, freddo: almeno 56 giorni. Cioè dal 25 giugno scorso quando, in una residenza disneyana di Los Angeles, un ragazzino cresciuto male e soffocato da una marea di lustrini e silicone, se ne andò ancor peggio. Non fu la fine, ma la scintilla che accese i fuochi artificiali (e fatui) di una sagra paesana in cui il paese non ha confini, è il mondo intero. Un globo diventato improvvisamente palloncino gonfiato con l’aria fritta delle «voci» e delle «rivelazioni».
E allora, avanti con la via crucis carnevalesca, con la quotidiana resurrezione del non morto, del fragile zombie sbiancato con la candeggina dell’inferiority complex, fardello insostenibile per i neri affamati. La prossima data in agenda è il 3 settembre. La location per la sepoltura è il Glendale Forest Lawn Memorial Park a Glendale, California, alle ore 7 locali. «Cerimonia privata», annuncia il sito ufficiale del cantante. Se non ci fosse di mezzo un morto, ci sarebbe da morire dal ridere. «Cerimonia privata», ci vuole un bel coraggio per raccontare barzellette a un funerale. Al confronto, chi ha messo in giro il video di Jacko che sale sull’ambulanza, è un benemerito. Se non altro, mostra un filo di affetto per l’eroe inghiottito dal tritacarne mediatico. Vorrebbe che fosse vero. Gioca, non mistifica, è un bambino che spara con la pistola ad acqua e poi si sdraia a terra col sorriso sulle labbra, se viene bagnato dall’amichetto. Lasciamo che sia la vita a sculacciarlo, quando sarà il momento.
Michael Jackson, il caro quasi-estinto che cantava They don’t care about us, cioè «se ne fregano di noi», ora l’avrà capito che la verità è ben diversa, e peggiore, di quella che temeva.

Se ne fregano eccome, di te, se gli conviene, se possono fare un giro di giostra alle tue spalle. «Non bisogna toccare gli idoli: la doratura può restarci sulle dita», scrive Flaubert. A volte la doratura diventa una patina appiccicosa.

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