Michelangelo l’arte di esistere

Nella biografia di Antonio Forcellino tutte le passioni di un genio inquieto e inimitabile

Sbuffa e s’incurva. Stringe il metallo. Picchia. Stringe di nuovo. Picchia, tra un rumore sordo e uno sbuffo di marmo. Passa il panno. Asciuga. Dilata l’occhio. Deterge il sudore. Restringe il metallo. Un altro colpo. Appoggia la mano, sente il brivido di pietra, il fremito del marmo, il pulsare delle venature, l’incavo delle curve che appaiono. Colpisce ancora. Scompaiono. Avanti. Riappaiono più a fondo, più vicine all’anima.
Chiuso nel grande magazzino, solo, il ventiseienne scruta ogni piega dell’immensa pietra. Da tre anni ci suda sopra, da quando Firenze gli ha chiesto di occuparsene. Ci voleva la sua mano, quel talento che già aveva fatto parlar di sé tra Bologna e Roma. In Bologna s’erano viste le figure di san Procolo e san Petronio prender forma tra i 50 e i 70 centimetri. In Siena aveva ritratto san Pietro e san Paolo sui 130, appoggiati nelle nicchie dell’altare del duomo. Nella Roma vaticana aveva ricavato 174 centimetri di pietà, quella giovinetta eternamente vergine che cingeva il Figlio morto; e poi aveva fatto oscillare l’ebbrezza di Bacco per quasi due metri di marmo. E in Firenze? A Firenze volle regalare un colosso. Un titano. Un «Gigante», come lo chiamarono subito i fiorentini al vederlo apparire, 400 centimetri e più di pura bellezza portata fuori a fatica dal grande magazzino e lasciata svettare, nuda e praticamente viva nella piazza davanti a Palazzo Vecchio.
Fu nel 1504 che il mondo lo vide. David, il David. Quello di Michelangelo. Il gigante di marmo non era altro che il riverbero su pietra dell’anima del suo autore, del Michelangelo nostro che visse a cavallo tra Quattro e Cinquecento, spaziando dal disegno alla pittura, dalla scultura all’architettura, dalla poesia alla memoria. Che riassunse in sé tutto il mondo del Rinascimento, il passaggio da un mondo a un altro fra il tormento e l’estasi.
Come ha scritto Giulio Carlo Argan, Michelangelo «chiuse il ciclo dell’arte classica, di rappresentazione, e aprì quello dell’arte moderna, come espressione di stati dell’esistenza». Quasi un sant’Agostino dell’arte visiva e plastica, innodato alla materia ch’egli percepiva come qualcosa di vivo e pieno di mistero. La sua grandezza, infatti, non fu nell’aggiungere ma nel levare, per usare le parole del Vasari: non accarezzava, non colpiva il marmo, la tela o il progetto per insistervi sopra con la propria idea; lasciava che questa incontrasse il dato originario, la materia in quanto tale, il suo essere natura e forma. Perché la bellezza è insita nel creato e l’artista deve lasciare che si manifesti, toglierla dalla prigione del corpo, del sasso, dell’impasto.
Sarà per questo che alcuni suoi incompiuti, come i Prigioni, sono precisamente schiavi che si ridestano, che prendono vita nel momento stesso in cui li si guarda, che sempre riprendono luce e aria e vita, come creature che nascono dalla pietra e non dall’acqua. Michelangelo (del quale Antonio Forcellino ha scritto la biografia in edicola da domani con il Giornale) fece, tra l’altre cose, pure questo: sprigionò la vita là dove essa sembrava muta, la invitò a parlare, tanto da colpire irato il suo Mosé di marmo: «Perché non parli?».
Da dove gli veniva quest’anima? Scherzando, ripeteva che l’aveva succhiata con il latte materno, o meglio con quello della balia che l’aveva svezzato, moglie di un tagliapietre di Settignano. Di certo egli aveva dentro di sé un fuoco che così provò a spiegare: «Io mi cibo solo di ciò che mi brucia dentro e mi infiamma, poiché mi si confà il fatto di vivere di ciò di cui gli altri muoiono...». Un’anima di fuoco e di tormento, appunto, capace di raggiungere le vette supreme dell’arte d’Europa e di sempre. Come disse Goethe: «Senza aver veduto la Cappella Sistina non ci si può fare un concetto adeguato di ciò che un uomo può compiere».


E se Michelangelo poté tanto, fu anche perché Iddio gli donò vita lunga e amicizie (e inimicizie, per la verità) importanti, visto che, nato nel 1475, morì nel 1564: una vita lunghissima anche per oggi, in cui il giovane divenne genio, poi uomo e infine saggio. Perché la mano di un artista esplicita, di passo in passo, di opera in opera, il trionfo lucido delle età dell’uomo.

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