Caro Granzotto, suo fedele lettore, chiedo il permesso di tornare da quanto lei scritto sulla questione Barack Obama. Io ero fra quelli che ci credeva e che, anche se con un po meno entusiasmo, ci crede ancora. Non sono un sincero democratico, come lei chiama quelli di una certa sinistra, non sono pacifista e di quelli che dicono «nero è meglio». Però Obama mi dà la speranza che il mondo possa cambiare in meglio. Io me la cavo bene, ho il mio lavoro e uno stipendio assicurato, però vedo tante persone che fanno fatica e famiglie intere che non riescono a fare quel salto di qualità che li libererebbe dalla schiavitù della povertà. Obama potrebbe col suo carisma fare molto per loro. Non dimentichiamo che il mondo già si muove in quella direzione, non dimentichiamo il Nobel per la Pace che ha inventato il microcredito con cui finanzia moltitudini di diseredati asiatici. Sono cose importanti e che significano che «si può fare», che il capitalismo può avere un cuore e rendere il mondo migliore. Sognare si può. Consideri quello che ho detto e continui a credermi un suo fedele lettore.
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Certo che sognare si può, caro De Bianchi. Oggi, poi, il sogno va fortissimo: non cè politico di sinistra che dimentichi di infiorarne i suoi interventi. È tutto un sognare e far sognare. Anche se a farne una litania fu Obama nel corso della campagna presidenziale, quale potente figura retorica il copyright del sogno spetta a Luther King con il suo celeberrimo «I have a dream...». Ma cè una bella differenza: King si augurava che presto il suo sogno diventasse realtà; Obama e i suoi imitatori promettono (Obama prometteva) o lasciano intendere di poterlo realizzare. Questi ultimi, in sostanza, vendono sogni. Merce, caro De Bianchi, che non le consiglio di acquistare. Di Obama si sa: la sua suggestiva eloquenza e i continui richiami alla sfera onirica hanno funzionato, e alla grande, fino a quando dal grembo di Morfeo dovette necessariamente tornare coi piedi sulla moquette dello studio ovale della Casa Bianca. Una volta lì, gli americani per primi poterono costatare - presentandogli poi il conto nella consultazione di mezzo termine - che larga parte di quei sogni erano fuffa, pura fuffa elettorale. Si sa meno, invece, di Muhammad Yunus, il banchiere a capo della Graamen Bank, la Banca dei Villaggi, il profeta del «business sociale» col quale spazzar via, come egli prometteva, «i castelli di sabbia delleconomia liberista». Quante se ne sono dette e quante scritte sul suo microcredito, quanti osanna, quanti commossi tributi, Nobel per la Pace incluso, gli sono stati riservati in nome del sogno? Articolo che vendeva a piene mani allopinione pubblica. Mentre ai poveri vende crediti esigibili.
Ora, caro De Bianchi, va bene sognare: ma come si può sognare che una banca, anche se si definisce «dei villaggi», abbia occhio solo allutile, al profitto del cliente? Non funziona, così, lo sappiamo tutti. Però quanti abboccarono al sogno? Avrà certo notato anche lei che di Yunus e della sua microfinanza da tempo nessuno parla più, se non sottovoce. Sa perché? Perché dopo tanto sognare e far sognare il risveglio è stato brusco: la banca umanitaria non si è infatti mostrata poi così umanitaria. Pensi che solo negli ultimi due mesi almeno cinquanta suicidi sono stati sicuramente collegati alla pratica dei microcrediti. Suicidi di insolventi, sprovvisti di quelle poche rupie necessarie a saldare la rata settimanale del prestito. Che ovviamente la banca, che è e resta una banca, pretende, senza concedere dilazioni anche per non compromettere la quotazione in borsa.
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