Mondo

La Middle America «arma segreta» della Casa Bianca

Ancora una volta una vigilia elettorale. Ancora una volta gli europei si chiedono per chi voteranno gli americani. Sarebbe forse utile cambiare, una volta tanto, la domanda e porla così: come voteranno gli americani? Ciò potrebbe aiutare a capire meglio non tanto i dettagli di una campagna elettorale che, pur con tutte le sue novità, è stata condotta pur sempre nel solco di una tradizione molto diversa dalla nostra, quanto quali passioni spingeranno un americano su due martedì alle urne e quali indifferenze indurranno l’altra metà degli elettori a starsene a casa. La saggezza convenzionale ci dice che l’elettorato Usa - che pone il business, proprio e pubblico, in cima a ogni altro interesse - «vota col portafoglio». Il computo dei sondaggi, la lettura o l’ascolto di dichiarazioni e comizi ci porterebbe a pensare che queste elezioni saranno un referendum sull’Irak: pro o contro, dentro o fuori, mantenere la rotta o invertirla.
Non sarà proprio così e raramente, del resto, le cose sono così semplici, non solo in America ma in ogni democrazia, a cominciare da casa nostra. Sull’Irak, per esempio, la maggioranza degli americani la pensa sostanzialmente così: avremmo fatto meglio a non andarci, ma adesso non possiamo scappare. Coloro in cui la seconda preoccupazione è prevalente tendono a votare per i repubblicani in quanto sono il partito di George Bush che è, ai loro occhi innanzitutto, il comandante in capo delle Forze armate della superpotenza che non può essere sconfitta.
Chi si sofferma prevalentemente sul giudizio di come l'avventura irachena è stata impostata e condotta si appresta a votare per i democratici non perché questi ultimi sappiano fornire un’alternativa convincente, ma per punire un presidente che assieme ai suoi collaboratori più stretti ha combinato un simile pasticcio. Anche un dibattito estremamente polarizzato, dunque, lascia una larga fetta di indecisi, di cittadini lacerati da impulsi contraddittori. Anche perché quello che si elegge non è un nuovo presidente, ma un nuovo Congresso che in tutti i casi dovrà convivere con questo presidente perché un sistema basato sulla divisione dei potere non contempla, per cominciare, niente di paragonabile al «voto di sfiducia» delle democrazie parlamentari.
Bene o male che vada, di conseguenza, potranno esserci delle correzioni di rotta, ma non un’inversione, perché questa potrebbe venire soltanto dalla Casa Bianca e Bush non sembra proprio il tipo disposto a confessarsi battuto e sconfessare se stesso.
A ciò si aggiunga che quattro americani su cinque al momento di abbassare la levetta o infilare un pezzo di carta in un gancio o, nel caso dove meglio prevalga il buon senso, fare una croce accanto a un nome guarderanno soprattutto quel nome e premieranno o puniranno il loro deputato un po’ per il suo orientamento politico ma molto per come egli ha saputo difendere negli ultimi due anni (la Camera Usa ha durata biennale) gli «interessi del distretto». Questo sistema è stato portato all’estremo dal continuo ridisegnare dei confini fra i collegi elettorali, che li ha fatti diventare quasi tutti «sicuri» o addirittura monopartitici.
I deputati Usa sono 435, fra i 380 e i 400 saranno rieletti automaticamente, la battaglia si concentrerà in una cinquantina e anche qui saranno bilanciati gli interessi locali e dunque privati, e le grandi visioni nazionali o addirittura internazionali. I democratici per diventare maggioranza dovranno dunque strappare agli avversari non 15 seggi su 435, ma 15 su 30 seggi repubblicani minacciati. Ciò spiega perché l’annunciato vantaggio dell’opposizione come intenzione di voto nazionale incontri così grosse difficoltà a concretizzarsi in mandati.
In Senato la situazione è po’ diversa, nel senso che è ancora più difficile. I partiti lo sanno da un paio di secoli e le campagne elettorali Usa in realtà non si combattono per il «voto degli indecisi», ma si vincono o si perdono in rapporto con la capacità degli uni o degli altri di mandare alle urne i «fedelissimi». In questo i repubblicani sono tradizionalmente più bravi, anche perché il loro elettorato non è così frastagliato come quello avverso ma si articola attorno a una spina dorsale: il voto dei rurali, dei credenti, dei conservatori. Della Middle America che compie scelte culturali magari rozze ma più profonde di quelle strettamente politiche. È questa la «riserva» su cui Bush conta.

Il motivo per cui egli continua a ripetere e ad ammonire di «non vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso».

Commenti