Mikhalkov: «Col mio 12 porto il dubbio nel cuore della Russia»

da Venezia

Primo film della Mostra è stato l’insolito e notevole - se non altro per l’interpretazione del declino dell’Urss che affiora dal rapimento della figlia di un capo del Pcus - Cargo 200 di Alexey Balabanov, presentato nelle «Giornate degli autori» curate da Fabio Ferzetti.
Ultimo film della Mostra, stavolta in concorso, è stato ieri ancora un film russo, che evoca un’altra eredità sovietica, ma anche dello zarismo: la guerra in Cecenia. È 12 di Nikita Mikhalkov, un altro titolo numerico dopo 300 di Zack Snider (che era all’ultimo Festival di Berlino). Agli spartani in armi su sfondi elaborati al computer di 300, in 12 si oppongono i giurati in riunione su un presunto parricida.
12 è la terza versione cinematografica di Twelve Angry Man («Dodici arrabbiati») di Reginald Rose, dopo quelle di Sydney Lumet e William Friedkin, entrambe intitolate La parola ai giurati (1957 e 1997). Nel 2007 la vicenda, così americana, è diventata russa, con riferimenti ceceni. Alla stampa, ieri, il lungo film di Mikhalkov è piaciuto: un premio non stupirebbe. Affiancherebbe, a casa Mikhalkov, il leone d’oro per Urga nel 1991.
Signor Mikhalkov, fonti dei suoi film sono spesso i libri. Ora è un altro film.
«Ma 12 è un rifacimento al 13 per cento, perché tredici sono i giurati più l’imputato».
Quando ha terminato di lavorarci?
«Da poco. La copia definitiva l’ho vista solo a Venezia».
Nel film, la riunione dei giurati avviene in una palestra: il tribunale è sotto restauro. Perché questo artificio?
«Per avere spazi che consentano movimenti di macchina e attrezzi da palestra, che mancano in tribunale».
All’inizio undici giurati sono per la condanna...
«Ma il dodicesimo esita e fa dubitare gli altri».
Il dubbio è la chiave del film.
«Decidere l’esistenza di chi non si conosce è facile se non si approfondisce. I giurati sono obbligati a farlo e ciò li lacera».
La superficialità dei rapporti immunizza dai sentimenti.
«Sì, chiediamo a qualcuno “come stai?” per abitudine. Non ascoltiamo nemmeno la risposta».
Lei ha fatto di un legal thriller americano un film psicologico russo.
«Tolstoj diceva: “Facile amare l’umanità, difficile amare gli uomini”».
Dunque?
«Sì, il mio film è russo in tutto e per tutto: solo un film con radici in un popolo piace agli altri popoli».
Il dubbio è anche in lei? Non mi sembra.
«Una volta non mi sono sposato per via di un dubbio».
L’imputato è un ceceno che avrebbe ucciso il padre, un militare russo.
«Non per questo il film è un’opera storico-politica. La guerra è solo il contrappunto del dramma dell’imputato, estesosi ai giurati».
Anche il personaggio interpretato da lei si rivela un ex militare.
«Ogni personaggio di 12 rivela la sua storia. Il film è come un romanzo: ha dei capitoli».
A proposito di capitoli: ora gira Il sole ingannatore 2, séguito del film premiato a Cannes e dall’Oscar.
«Ho ancora otto mesi di riprese, perché in realtà Il sole ingannatore 2 si compone di due film: Attesa e Cittadella».


Ci sono scene di guerra?
«Molte. È una produzione da trentacinque milioni di euro».
Lo vedrò qui fra un anno?
«La Mostra predilige i piccoli film!».
Lo vedrò al Festival di Cannes?
«Forse lo vedrà al Festival di Mosca».

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