«Milano, una bambina cresciuta in fretta»

L’inarrivabile Vienna di Freud e Schnitzler, la New York di Woody Allen, la Londra di Wilfred Bion (che ebbe in cura Beckett) e di Masud Khan (che sedusse molte pazienti), e infine la cerebrale e loquacissima Parigi di Lacan.
E Milano? Cosa racconta Milano, quando a guardarla sono gli occhi tranquilli e penetranti di un medico dell’anima? Cosa narrano i milanesi sul lettino del terapeuta quando si chiedono: come sono io? Com’è fatta la mia psiche?
Vera Slepoj - di cui l’ultimo libro uscito è l’intenso L'età dell'incertezza. Capire l'adolescenza per capire i nostri ragazzi (Mondadori, pagg. 188, euro 17) - ha tenuto per anni sul Gazzettino della città dove si è laureata una rubrica dal titolo eloquente, «PsicoPadova», dove osservava il capoluogo e i suoi abitanti con la lente della psicoterapia. Le abbiamo chiesto cosa scriverebbe in un’immaginaria rubrica «PsicoMilano», dal momento che qui trascorre molta parte della su vita.
«Scriverei di un luogo - e di un’anima - che ha perso la sua anamnesi, la sua storia. Milano è una città nata a ridosso di fiumi e di laghi, immersa in una regione verdissima. Se ne studiamo la storia come si fa con un paziente - parallelismo che mi ha sempre affascinato - direi che Milano era una bambina spontaneamente gioiosa, che giocava negli orti e nella campagna, che conosceva i cicli della vita e della morte, l’onestà e le invisibili regole del vivere. Una città ridente, che aveva fondamenta semplici, legate alla natura».
Poi?
«È stata obbligata a crescere troppo in fretta, attraverso le dominazioni francesi e austriache, senza avere il tempo di essere sé stessa. Ha perso prematuramente la spensieratezza dell’infanzia, precipitando subito nelle responsabilità. E come accade ai bambini diventati grandi prima del tempo è affascinata dalla trasgressione. Si innamora di New York, di Roma, di Palermo. Ma è un amore che manca di gioia».
Così la città, così i cittadini?
«Certo. Prenda la donna milanese: in definitiva è una radical-chic. Insegue la raffinatezza, la sobrietà. Non mostra tutte le colorate vitali chincaglierie della donna del sud. Ha l’ossessione - quando non l’obbligo ecumenico - di essere all’altezza della situazione, di risolvere i problemi, di presentarsi al mondo come una donna capace e sicura di sé. Milano è proprio così, quando invece dovrebbe mettersi addosso più cose inutili. Si divertirebbe».
Ma pare questo stia per accadere...
«Si riferisce all’Expo? Per i milanesi sarebbe molto sbagliato pensare di esistere perché arriva l’Expo. Come sbaglia la persona che pensa di vivere solo perché fa un viaggio esotico».
Cosa consiglierebbe loro di fare, invece?
«Di non fare le cose per ricevere applausi o solo per dimostrare che “qui le cose funzionano”. Direi ai milanesi di amare davvero la propria città. Perché ogni week end tutti se ne vanno? Perché non restano a casa a pensare: come posso abbellire il luogo in cui vivo? Dove posso mettere questi alberi, quest’acqua? Come posso creare quest’allegria che desidero? Invece i milanesi li trovi da tutti le parti, in Liguria come a Los Angeles, ma mai proprio qui. Sono costantemente attratti da altri luoghi. Nel peggiore dei casi, imitano e cercano una realtà di apparente successo, anziché essere se stessi».
Ma la ricerca dell’identità è un valore debole: si è se stessi quando non si ha niente di meglio da fare, diceva il poeta. Quando non si ama.
«Lei ha ragione. Ma Milano non è ancora arrivata a essere sé stessa, per poi dimenticarsi, innamorarsi davvero. Ancora fugge in continuazione da sé: col lavoro, con l’essere sempre altrove, in un continuo, superficiale e autodistruttivo interesse per le varie diversità che incontra o che qui arrivano. Guardandola nel fine settimana si vede il suo vero volto: una città ufficio. Un’agenzia di collocamento, un grande albergo, una vetrina per il made in Italy. Ma una vetrina, appunto. Non una città calda, di relazioni, dove vivere».
Infatti è difficile trovare immigrati che diventano, insomma, milanesi.
«Ci sono pugliesi a Milano da cinquant’anni che si pensano ancora pugliesi e li percepisci così. Ma alla fine bisogna decidere cosa essere: se vivi un’intera esistenza in un luogo, non puoi sottrarti ad esso. Invece moltissimi residenti hanno paura a diventare milanesi, a “diventare questa città”. Una vera schizofrenia».
Ancora oggi sottovalutata.
«Si nasconde la polvere sotto il tappeto. Alcuni pazienti vengono da me e mi dicono: “Ho questo problema, come lo risolvo?” Magari preferirebbero risolverlo senza nemmeno capirlo.

Tipicissimo di Milano: la nevrosi da risoluzione. Quasi un marchio di riconoscimento».
Forse i milanesi non vanno troppo d’accordo con l’introspezione.
«Esatto. Poiché la vera personalità introspettiva non nega le proprie angosce».

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