Milano, banche a giudizio per truffa al Comune

MilanoPer trovare un giudice che abbia avuto a che fare con la materia indecifrabile della finanza derivata, bisogna tornare indietro di dieci anni. A Londra, alla fine degli anni ’90, un tribunale amministrativo invitava i Comuni a non sottoscrivere quei contratti. Troppo rischiosi. Storia d’altri tempi. Ora le banche - e per la prima volta - sono chiamate a rispondere penalmente di un prodotto venduto come la soluzione ai bilanci degli enti pubblici, ma ritenuto (almeno in questo caso) un raggiro ai danni delle amministrazioni locali. Accade a Milano, dove il gup Simone Luerti ha rinviato a giudizio quattro istituti di credito con l’accusa di truffa aggravata ai danni del Comune di Milano, al quale avrebbero causato un danno da 100 milioni di euro. Una cifra, questa, pari al profitto incamerato dalle banche.
A processo, dunque, andranno Jp Morgan, Deutsche Bank, Ubs e Depfa Bank, responsabili per gli illeciti commessi dai loro funzionari. «Nessuna truffa è stata perpetrata ai danni del Comune di Milano, né alcun illecito profitto», ribattono gli istituti di credito. «Siamo certi - aggiungono - che la solidità della nostra posizione verrà dimostrata nel corso del dibattimento». Ad ogni modo, «ribadiamo la piena fiducia nell’integrità dei nostri dipendenti coinvolti nella transazione». Perché tra i rinviati a giudizio ci sono anche 11 manager (e tra questi Gaetano Bassolino, figlio del governatore della Campania, con ufficio alla Ubs di Londra), ai quali si contesta di avere mentito sulla convenienza economica per il Comune. A giudizio per concorso nella truffa, infine, anche due ex funzionari di Palazzo Marino: l’ex direttore generale Giorgio Porta, e Mauro Mauri, membro della commissione tecnica comunale che aveva il compito di valutare i rischi della ristrutturazione del debito. Entrambi, secondo il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, non avrebbero rappresentato correttamente agli organi decisionali del Comune i termini reali dell’avventura finanziaria in cui Palazzo Marino si stava imbarcando. Ovvero, il bullet bond trentennale da 1,6 miliardi sottoscritto nel 2005 dall’allora sindaco Gabriele Albertini. Perché quello che doveva essere un affare, in realtà, si è presto rivelato un boomerang per le casse pubbliche.
Già nel 2007, infatti, il contratto aveva smesso di essere conveniente per il Comune, arrivando a un valore negativo del mark to market pari a 290 milioni di euro. Un quadro su cui si era soffermata anche la Corte dei conti della Lombardia, che in una delibera dell’aprile 2008 sottolineava come fosse «estremamente significativo il rischio assunto» da Palazzo Marino, con ricadute sulle «risorse delle generazioni future». I magistrati contabili avevano addirittura adombrato la possibilità del crac, considerando che l’Ente «non ha alcuna tutela in caso di insolvenza o inadempimento dell’intermediario». Ma se fino a quel momento il redde rationem sembrava confinato all’orizzonte del 2035, ora lo scenario cambia. Non tanto per le sorti dei bilanci comunali, quanto per il processo che inizierà il prossimo 6 maggio. Robledo, incassata una prima vittoria, predica calma. «È solo la tappa di un percorso molto delicato», dice a conclusione dell’udienza preliminare.
Per la prima volta, dunque, si chiede alle banche di giustificare un affare che secondo la Procura è stato pilotato in modo da garantire utili ai privati, scaricando le scorie della finanza sull’amministrazione. Primo, perché la firma sui contratti (regolati dalla legge inglese, così da tutelare gli istituti di credito) arrivò senza che i funzionari pubblici chiedessero una consulenza esterna, ma lasciando che il ruolo di advisor fosse ricoperto dalle stesse banche che proponevano l’accordo. Secondo, perché il passaggio dal tasso fisso a quello variabile venne fatto nel momento in cui - stando alle stime di molti economisti - i tassi erano al minimo storico. Dunque, destinati a salire.
Insomma, un divario colpevole tra la complessità della materia e la leggerezza con cui la decisione venne presa. Memorabile il racconto fatto da Elfo Butti, all’epoca direttore centrale del settore Ragioneria e finanze del Comune, davanti a Robledo. Butti è l’uomo che materialmente discute con i manager delle banche di bullet, cap, floor, mark to market, swap. E firma i contratti. «Io non sono affatto un esperto in operazioni in strumenti derivati», spiega al magistrato. Di più, «non ho mai trattato la materia».

E già che ci siamo, «non parlo nemmeno l’inglese». Una scena da teatro dell’assurdo. Se è una truffa - e a dirlo sarà solo il tribunale - ha alcuni tratti del «bidone». Quasi come vendere il Colosseo a un turista giapponese.

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