Milano, Italia: il modello azzurro diventa tricolore

Milano Giacche, cravatte, tante, forse troppe, tacchi dodici, qualche minigonna, una mezza ipotesi di velina, un paio di generali in pensione, il signore vestito di marrone dice che fa il commerciante e solo qui non si sente bistrattato. Qualcuno sostiene che il popolo della libertà sia solo un luogo comune, un’invenzione da laboratorio. Forse si sbaglia. Questi qui sono veri. Sono un frammento di quella schiatta di italiani che la sinistra fatica a riconoscere, quelli che si sono sentiti messi da parte, non rappresentati, che non finiscono nei romanzi giusti, che le telecamere di Santoro non inquadrano mai, che non fanno tendenza, non fanno colore, non li citeresti nei titoli di coda di un film da portare a Venezia. Il problema per chi non li ha mai guardati in faccia, degnati di uno sguardo, è che questi votano. E sono la maggioranza.
Qui non ci sono salamelle che bruciano, non ci sono le magliette del Che, non c’è la religione del partito di massa, la birra, gli intellettuali con gli occhiali rossi (tranne Ignazio La Russa, che se lo definisci intellettuale forse un po’ si offende), la litania sull’Italia marcia e da ributtare in mare, le ossessioni sulla libertà di stampa. Qui ci sono vecchie signore che ti dicono di non fumare, perché fa male, e ragazze che dicono tranquillamente che sono di destra, ma non amano le telecamere e non sognano la tv. La vita, in fondo, non è tutto uno stereotipo. E allora, sorpresa, ci sono anche i libri. Come Dio comanda le bancarelle sono due passi dopo l’ingresso, accanto ai prodotti tipici, piccole imprese alimentari che in qualche modo fanno cultura, perché dietro ogni pezzo di formaggio o di salame c’è una storia. Che libri sono in vendita per il popolo della libertà? «La società aperta e i suoi nemici» di Karl R. Popper e «Eurabia» di Bat Ye’ Or, Aron e Mishima, Guareschi e Martinetti, le Madonne di Socci e la biografia di Mike Bongiorno, qualcosa del vecchio La Rochelle e la biografia di Almirante, tutto Tolkien e «Qualcuno era comunista» di Luca Telese. Tutto questo magari non basta per dare un’identità a un partito, ma le «biblioteche» dicono qualcosa della gente che incontri.
Questa è una festa nata quando ancora c’era An, ma il sincretismo, la mescolanza, in qualche modo funziona. Forse perché Milano sa sorprenderti. Qui il Pdl è possibile. A Milano in fondo nasce tutto, tutto comincia. Le cose belle e quelle più brutte. Milano è Berlusconi. È il discorso del predellino. È quella convivenza che La Russa ha saputo creare con Formigoni, con Comunione e liberazione, con l’anima laica e con i reduci del socialismo. Qui non è Roma, dove i confini sono più netti, dove l’odore dell’ideologia e dell’appartenenza non va mai via, ti resta addosso. Qui è più facile creare qualcosa di nuovo, il passato e il futuro bene o male trovano un punto d’incontro. Dice Massimo Corsaro, di professione onorevole, uno che è cresciuto nel Fronte e poi si è ritrovato in giunta con Formigoni, che non è certo da queste parti che il Pdl rischia di non riconoscersi. Quelli di An sono anni che convivono e trovano spazio, qui a Milano, con i Berlusconi, i Tremonti, i Bossi. Questo non è il Lazio, dove An ha costruito il suo ultimo feudo. Qui la mano di Fini arriva, ma un po’ mancina.
Non piace Gianfranco. La gente che ascolta Bondi parlare («siamo l’unico partito nazionale») sente l’ex pupillo di Almirante distante e lontano. Non lo capiscono. Non capiscono la sua voglia di passare per uno di sinistra, in alcuni c’è rabbia, in altri una sorta di nostalgia, come per un amore che sta sfumando. Le questioni etiche gliele perdonano tutte, perfino i cattolici non ne fanno una bandiera, sulla vita e sulla morte ognuno si regola come vuole. La coscienza è coscienza e va rispettata. È sull’immigrazione che fanno pollice verso. È che qui di gente ne arriva tanta e non tutta è buona. Hanno paura dei romeni e degli albanesi che ti sparano in casa. Le moschee in strada sono il segno che qualcosa sta cambiando, troppo in fretta. Si può integrare, si chiedono, chi vede l’Occidente come un nemico? Non sono le preghiere che fanno paura, ma quel restare stranieri nella nuova patria. E a Fini chiedono: sei davvero convinto, Gianfranco, che bastino cinque anni per dire «questa terra è la mia terra»? Non è una questione di tempo, ma di fede. Quella loro qualche volta li lascia troppo lontani.
Quello che mancava ancora al popolo della libertà glielo sta regalando la sinistra. Prima c’era solo la fiducia in Berlusconi, ora un’identità che dovrebbe essere quasi banale. Questi si riconoscono nell’orgoglio di essere italiani. Lo ripetono in continuazione. È una fissa. Loro italiani, gli altri che sputano su tutto. È una cosa strana, sembra di essere trasmigrati in una sorta di secondo risorgimento, con le coccarde tricolori, il viva Verdi e gli inni di Mameli, le cinque giornate e Brescia leonessa d’Italia.

Si sentono l’Italia che ce la fa, quella che non si arrende, quella che resiste e che lavora, quella che l’Europa è un cavillo continuo, quella che non ne può più dei profeti di sventura, sempre a piangere sulla crisi, sull’influenza e su qualsiasi catastrofe divina. Il merito di tutto questo è dell’opposizione. Ha regalato al Pdl un’identità post-berlusconiana. E qualcuno è convinto che quasi quasi si converte anche la Lega. Basta disegnare l’Italia campanile per campanile.

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