Ma perché bisogna creare un boschetto in piazza Duomo a Milano? Per vederlo deperire sotto i tagli di una manutenzione sempre più costosa? Per offrire altre opportunità ai bisognosi, cioè coloro che non si fanno problemi su dove sfogare le proprie esigenze urinarie? Sulla nascita di quella che si pensava fosse soltanto una boutade, una provocazione in salsa ambientalecologista sappiamo tutto. Milano (la città, il Comune, insomma qualcuno) vuole che l’anno venturo Claudio Abbado torni a dirigere alla Scala il 4 e il 6 giugno l’Ottava Sinfonia di Mahler. Lui, sensibile al verde più di quanto lo sia ai verdoni, chiede un cachet «in natura»: novantamila alberi da piantare in città. Un numero esagerato, ma che viene preso sul serio. Tra i primi a indossare il grembiule da giardiniere e mettersi a servizio dell’amico Claudio è Renzo Piano, architetto geniale e a volte discusso ma mai banale. Prende un pennarello, ovviamente verde, e inizia a tracciare disegni inginocchiato per terra in via Dante seguito da una piccola corte ammirata di otto persone (per non parlar del cane).
Insomma, avallata dall’autorevole parere-collaborazione-visione futuribile dell’archistar, l’idea del bosco in piazza Duomo, una settantina di piante «opposte» alla Cattedrale, mette radici. Delle altre ottantanovemilanovecentotrenta piante non gliene frega niente a nessuno. Sì, una manciata nella vicina via Orefici, qualcuna in quella che prima che fosse invasa dai dehor di bar, gelaterie e pizzerie era la monumentale via Dante, un’aiuola nella vicina piazza Cordusio. Quelli che contano sono gli alberelli sul sagrato.
Essendo un’idea di maestri del pensiero e dell’arte, in pochi (la concorrente archistar Vittorio Gregotti tra questi) l’hanno giudicata una cretinata. Qualcuno s’è indignato («Ricatto ecologico a buon mercato», «provocazione vagamente ecologista»). C’è invece chi si è messo subito in fila, ha velocemente sfogliato il dizionario del politicamente corretto e ha declamato con sussiego: «Sarebbe un’opera di grande spessore culturale». Forse come quella, nata una ventina d’anni fa, di piantare alberi di pesco in piazza Fontana. Illuminazione dell’ingegno spentasi con la velocità con cui i petali dei fiori di pesco deperiscono.
Allora. Dire «Facciamo Milano più verde» è banalmente scontato. Applausi. Che sia necessario prendere sul serio l’idea di iniziare da piazza Duomo è per lo meno bislacco. Non solo per le promesse (raramente mantenute) di sindaco e assessori di tenere il più possibile sgombera la piazza da bancarelle, piste di pattinaggio, tensostrutture di vario genere, per poterne apprezzare al meglio maestosità e sacralità. Non soltanto perché - ci raccontano i professori (Marco Romano, docente di Estetica della città) - le piazze principali della città sono nate a cavallo del 1200 come il luogo privilegiato dell’assemblea cittadina, da sempre immaginate come completamente libere da ingombri stabili che interferiscano con questo ruolo materiale e simbolico. Non solo perché è stata sempre affermata l’inviolabilità e intangibilità del pavimento del Portaluppi che, per ospitare le piante, esigerebbe grandi vasconi rialzati per non venire danneggiato ed evitare disastrosi precedenti (i vasoni di via Vittor Pisani, tanto per fare un esempio, i milanesi lo sanno bene). Non soltanto per i costi di manutenzione. Non soltanto perché il boschetto andrebbe presidiato per evitare ogni forma di degrado. Non solo perché sono stati eliminati i vespasiani per aumentare il decoro della città ma si sono moltiplicate le latrine a cielo aperto irrorate da incontinenti di tutte le età.
Ma soprattutto per un motivo: se il sagrato del Duomo e la piazza sono splendidi proprio quando sono «vuoti», chi ha voglia di verde, non potrebbe percorrere 1,1 km lungo via Orefici e via Dante, 15-20 minuti senza correre, e farsi una sana passeggiata al Parco Sempione?
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