Una Milano nascosta raccontata da chi l'ama

Una Milano nascosta raccontata da chi l'ama

Non più businness city, ma beaty city che nel fascino batte Roma. Scrive Ottavia Piccolo: «Milano è una città che mi è sempre piaciuta, contrariamente ai miei amici romani che dicevano: «Ah, a Milano non si può vivere». Io, invece, l'ho sempre vista come una città molto vivace, e rispetto alle altre città italiane, più moderna, più eclettica». Le righe sono tratte dal capitolo «Il viale Montenero e la casa dei due pavoni», contenuto in «Milano città narrata» a cura di Angelo Gaccione, Meravigli Edizioni. Scrive il critico cinematografico Morando Morandini a pagina 94: «In mezzo secolo Milano è cambiata. In peggio». Il bello del narrare è questo: ogni pensiero può essere contraddetto dal pensiero successivo, perché narrare significa testimoniare. Ma non testimoniare di fronte a un giudice; un grande narratore sa che qualsiasi giudice non condanna la colpevolezza di un possibile innocente, ma l'innocenza di un probabile colpevole, e la narrazione invece vive solamente nell'innocenza che può permettersi di dire una cosa e il suo contrario, affermando alla fine sempre la verità. Narrare, narrare, narrare: l'impresa più ardua che l'uomo possa compiere con la penna perché è facile commentare, criticare, sentenziare, ma la cosa difficile è raccontare, pratica alquanto in disuso anche nei romanzi più gettonati. A suo modo «Milano città narrata» è un romanzo, perché è come se i vari capitoli fossero brani di personaggi inseriti un situazione, dove la situazione è questa Milano così antica e così mutante, che dialogano tra loro. Sono racconti di una, due, tre paginette che possono funzionare anche da guida turistica per un viaggiatore che vuole andare a visitare Sant'Ambrogio, ad esempio, e il «polmoncino affaticato» di parco Solari, e allora può leggersi «Tra Sant'Ambrogio e San Vittore» dello scrittore Maurizio Mischia, una sola facciata che termina con un commento che disorienta ma fa riflettere sul guizzo del pensiero quando è libero e liberatorio: «Caro Agostino di Tagaste, nordafricano, dottore della Chiesa e fluviale scrittore; il tuo maestro Ambrogio, tuo battezzatore, ha ricevuto miglior sorte urbana, senza aver molto dato alla filosofia. Sarà per la tua giovinezza dissoluta? Non m'importa. Per me non sarai un santo ma nemmeno solo una fermata del metrò».
Scrive l'attore e regista Maurizio Nichetti: «A Milano non ci stupiamo più di niente, solo il Gigante in piazza Grandi fissa ancora affascinato la sua cascata che non è mai riuscito a toccare. Ci sono passato vicino la settimana scorsa, in auto, mi è squillato il cellulare, ho frenato bruscamente, non per rispondere, ma perché il trillo del telefono lo ha fatto voltare. Non credevo ai miei occhi, il gigante mi guardava sorridente e mi ha strizzato l'occhio in segno d'intesa». Milano è una favola, afferma Nichetti.

Non di un «C'era una volta» ma proprio di ora, perché è ora che sta cambiando volto: alla faccia della vecchia metropoli mordi e fuggi, è una città d'arte, e il nostro compito è di renderne testimonianza adesso per il futuro.

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