La Milano nera ai tempi della peste

È il 12 agosto 1576 quando inizia la discesa all’inferno del notaio criminale Nicolò Taverna, protagonista del romanzo di Franco Forte Il segno dell’untore (Mondadori, fra due giorni nelle librerie) di cui proponiamo qui in anteprima l’incipit. Una storia ambientata in una Milano spettrale assediata dalla peste dove si è scatenata la caccia ai responsabili dell’epidemia e dove la Santa Inquisizione stende la sua longa manus con torture e ingiustizie, accusando di nefandezze poveri innocenti pur di trovare capri espiatori. San Carlo Borromeo, nel Liber Memorialis del 1599 definisce la peste «la mano di Dio» che ha abbassato la superbia di Milano e l’ha «ristretta nelle sue mura».
E in questo territorio apocalittico Nicolò Taverna, con i suoi aiutanti Rinaldo Caccia e Tadino José Del Rio, dovrà far luce prima sull’omicidio del commissario dell’inquisizione Bernardino da Savona e poi sugli strani furti di un candelabro del Cellini sottratto dal Duomo e su quello della reliquia del Sacro Chiodo della Croce di Cristo. Taverna, sconvolto dalla morte fra atroci deliri della moglie Anita, cercherà di dare un volto ai colpevoli, muovendosi fra indesiderati, monatti e Umiliati.
È un uomo tutto d’un pezzo costretto a render conto sia alla Chiesa sia alla Corona, ma soprattutto al Capitano di Giustizia. E svolge il proprio mestiere in una città dove, come racconta sempre Carlo Borromeo, «fuggivano i grandi, fuggivano i bassi... e chi non fuggiva, spesse volte era dal male o da i sospetti del male ridotto nell’angustie del lazzaretto, o fuori dalle mura della Città». Il desiderio di giustizia tiene con i piedi per terra il nostro notaio criminale dotato di notevole acume deduttivo.

E se Forte aveva già fatto le prove di alcuni suoi personaggi in I bastioni del coraggio (Mondadori), possiamo affermare che con Il segno dell’Untore la commistione fra storia e mistero risulta efficace, grazie a un’ambientazione suggestiva e a un protagonista che affascina.

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