Milano - Uomo di pace e di dialogo, o emissario della jihad e reclutatore di combattenti? Su Abu Imad, imam della grande moschea milanese di viale Jenner, si abbatte ieri la sentenza della Corte d'assise di Milano: per almeno la prima parte della sua presenza in Italia, dice la sentenza, il leader spirituale della comunità milanese lavorò sottobanco a favore delle fazioni più radicali dell'integralismo, reclutò per la guerriglia e finanziò le bande del terrore. Per questo Abu Imad - processato a piede libero - viene condannato a tre anni e mezzo di carcere. La sentenza arriva alle 17.30 di ieri, e costringe a rivedere sostanzialmente le analisi sulla presenza islamica nel nostro paese. Tanto che Riccardo De Corato, vicesindaco di Milano, fa sapere: «Dopo questa sentenza, chiederò di prendere provvedimenti su viale Jenner». E cioè la chiusura della moschea.
In realtà la stessa sentenza dice che, nella vita di Abu Imad, il periodo peggiore ormai è alle spalle. Negli ultimi anni questo egiziano di 46 anni ha spezzato i suoi legami con il mondo della guerra santa, e ha spinto fuori da viale Jenner gli emissari di Al Qaida e delle sua miriade di satelliti. Per questo, unico tra tutti gli undici imputati, non viene colpito dall’ordine di espulsione. Anche se la condanna dovesse venire confermata in appello, e anche se dovesse scontarla in carcere, alla fine Abu Imad potrebbe restare in Italia e riprendere il suo posto in viale Jenner. «Ha preso le distanze dai suoi comportamenti di quegli anni», aveva detto nella sua requisitoria il pubblico ministero Elio Ramondini. La Corte d’assise gli ha dato ragione.
Resta, in tutta la sua gravità, l’accusa di cui Arman Ahmed El Hissini Helmy - questo il vero nome dell’imam - si è reso colpevole secondo la sentenza di ieri: «Associazione a delinquere aggravata da finalità di terrorismo». Quattro, nello specifico, le colpe attribuite al predicatore. Avere pagato l’affitto del covo di via Conte Rosso dove venivano gestiti i contatti via computer con i «fratelli» in teatro di guerra. Avere accolto e ospitato in viale Jenner i reduci dai campi di addestramento afghani. Avere reclutato all’interno della moschea i volontari destinati al fronte. Avere finanziato, anche con denaro proveniente dallo spaccio di droga, le organizzazioni della jihad.
Ma più di tutto, sul destino dell’imam, pesano probabilmente le parole pronunciate in aula dal tunisino Tlili Lazar, uno dei primi jihadisti «pentiti» a disposizione della Procura milanese. Tlili Lazar ha raccontato come in viale Jenner, accanto al mercato ufficiale di prodotti religiosi, fiorisse un mercato parallelo di libri e dischi che propagandavano esplicitamente la guerra armata contro l’Occidente. Alla domanda del pm Ramondini «Qual era il contenuto delle cassette?», ha risposto: «Cassette di jihad. Ti dicono: guarda come ammazzano i nostri fratelli, i nostri bambini, le nostre sorelle, allora è dovere di tutti i musulmani fare la jihad... Il venerdì alla moschea facevamo la preghiera lì e si scambiavano queste cassette». E alla domanda su chi comandasse in moschea e consentisse che si propagandasse il terrorismo, ha risposto senza esitazioni: «L'imam. Si chiama Abu Imad, è egiziano. Se lui non vuole, sicuramente questa gente non può portare le videocassette alla moschea. Lui ha il potere per impedirlo».
Un potere, dice la sentenza di ieri, che per un bel po’ Abu Imad si è ben guardato dall’esercitare, consentendo che il grande magazzino sulla circonvallazione esterna diventasse un serbatoio di combattenti pronti al martirio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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