Il nervo della mascella di Giovanni Petrali trema impercettibilmente mentre il giudice Luigi Cerqua si sistema il microfono e inizia a leggere la sentenza. Tre minuti per dire che per la Corte d’assise di Milano lui, Petrali, non è un assassino. Quando, un pomeriggio di maggio di sei anni fa, aprì il fuoco su due rapinatori - decide la Corte - sparò e uccise convinto di difendere la sua vita, la propria incolumità e quella dei suoi cari. Per la prima volta, da quel pomeriggio di maggio, Giovanni Petrali torna a sorridere.
Non è una assoluzione piena, come lui avrebbe ritenuto giusto e come chiedevano i militanti leghisti che dalla mattina avevano riempito l’aula con i loro fazzoletti verdi. La Corte dichiara il tabaccaio milanese responsabile di omicidio colposo. «Eccesso putativo di legittima difesa - spiega il giudice Cerqua poco dopo - significa che ha creduto di essere in pericolo, e si è difeso». Un anno di carcere con la condizionale. Quasi un’assoluzione, di fronte ai nove anni e mezzo per omicidio volontario chiesti per lui dal pubblico ministero Laura Barbaini. «La sua non fu una difesa ma una vendetta - aveva affermato il pm - quando aprì il fuoco i rapinatori stavano fuggendo, i colpi li raggiunsero alle spalle».
Perizie balistiche, analisi dei corpi, frammenti al microscopio: il processo si è giocato a lungo anche sul fronte tecnico, indispensabile per capire in che fase della rapina il tabaccaio avesse iniziato a fare fuoco sui rapinatori. Ma quella combattuta in Corte d’assise è stata soprattutto una nuova puntata di uno scontro già visto: i diritti della vittima contro quelli del colpevole, l’applicazione rigorosa del codice e il buon senso popolare che spinge in un’altra direzione.
«Vi chiedo una sentenza impopolare», aveva detto il pm Barbaini ai giurati prima che si ritirassero in camera di consiglio. Non è stata accontentata. I testimoni raccontano che durante la rapina Alfredo Merlino, il rapinatore che poi verrà ucciso, incitava al complice armato a fare fuoco. «A quel grido “spara, spara, spara” - aveva detto l’avvocato Petrali, figlio e difensore dell’imputato - voi dovete rispondere “assolvo, assolvo, assolvo”».
Questo, più delle tecnicalità della ricostruzione, ha forse fatto breccia nel cuore dei giudici popolari. Ma non solo nei loro: va ricordato che gli stessi giudici togati che presiedevano questa Corte d’assise, Cerqua e Scarlini, due anni fa con una sentenza fotocopia inflissero 12 mesi (contro i dieci anni chiesti dalla Procura) a un altro negoziante milanese, l’orefice Rocco Maiocchi, che aveva ucciso un ladro venuto dal Montenegro.
Ieri all’anno di condanna per omicidio colposo si aggiungono per Giovanni Petrali otto mesi per avere portato la pistola fuori dal suo bar. Petrali è un uomo di 74 anni, scavato, bianco, che per parlare preferisce il milanese all’italiano. Sul volto dell’imputato, dopo la lettura della sentenza, la tensione si scioglie lentamente. «Mi aspettavo di più - dice - ma è chiaro che sono sollevato». Per i due rapinatori - quello che ha ferito a un polmone e quello che ha ucciso con un colpo al cuore - non si dilunga in espressioni di pietà. «Spero che questa esperienza gli serva a rimettersi sulla strada giusta», manda a dire al sopravvissuto. E allo scomparso, cosa direbbe? «Che è andata così, e nessuno può più farci niente».
La folla preme, il leghista Matteo Salvini si proclama comunque insoddisfatto, il pubblico ministero lascia l’aula scura in volto: presenterà appello. Ma c’è un’ultima cosa che Petrali vuole dire, prima di andarsene, ed è forse la più importante. Se potesse tornare indietro - gli chiedono - cosa farebbe? Lui pensa un attimo, poi risponde: «Lascerei le armi al loro posto. Vedete, io sono sempre stato contrario alle armi. Non le ho mai volute vedere. Ma dopo tre rapine...
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