Baggio, l'ex paese battezzò un pontefice e un dirigibile

Nel quartiere, noto per il distretto militare, nacque papa Alessandro II Dall'aerodromo è decollato l'Italia di Nobile, poi schiantatosi al Polo

Era l'ora delle streghe, ma ben più di un capannello di curiosi si erano assiepati sotto gli ombrelli, con il naso all'insù. Volevano vederlo partire. Salutarlo con i fazzoletti intrisi delle lacrime del cielo. L'«Italia» si staccò dal suolo di Baggio nella luminosa oscurità di una fama che Umberto Nobile aveva tentato di sottrarre al suo dirigibile. Temeva. Ma sfidava se stesso. La sorte. E l'impresa che, due anni prima, non gli era riuscita con il «Norge». Troppo piccolo per atterrare sul Polo. Dovette accontentarsi di sorvolarlo. Ma non dimenticò quello smacco che il fato gli aveva imposto. E ci riprovò.

Pioveva, quella notte. Come tutto il giorno precedente. Un sabato di cielo grigio. Plumbeo. E aria rigida. Benché fosse metà aprile. Il 15. Anno del Signore 1928, sesto dell'era fascista. Nell'antichità si guardava la volta celeste per scoprirne gli auspici. E si osservava il volo degli uccelli. Non a caso, la parola deriva da avis specio. Poi qualcuno disse che il metodo agevolava finzioni e inganni e, già ai tempi di Cicerone, si decise di interpretare la fortuna guardando il meteo. Non si è mai più smesso. Ma, quella sera, le condizioni avverse non se le filò nessuno. Mancava un quarto alle due. Nel cuore delle tenebre. Anche il buio faticò a nascondere un aerostato.

Prima del decollo, Mussolini, che lo aveva promosso ufficiale del Genio, ammonì Nobile di non farsi troppe illusioni. Il suo viaggio non interesserà nessuno - vaticinò con la solita sicumera - ma aiuterà la ricerca e gli scienziati la benediranno. E, quasi ingenua provocazione, gufò: «Si ricordi, Generale, mai andare due volte contro lo stesso destino». Sbagliò in parte perché l'odissea di quei sedici ardimentosi, in volo dai cieli di Baggio al Polo nord, catturò l'attenzione del mondo. Fu l'emozione per lo schianto dell'«Italia» sul pack. O l'opinione pubblica, divisa sul conto di quell'avellinese di Lauro, da tanti incolpato di aver abbandonato molti compagni d'avventura. Tra morti e dispersi, in otto non tornarono. Metà dell'equipaggio. Tornò invece Titina. La mascotte. Una cucciola di fox terrier alla quale i ghiacci e due mesi di stenti non fecero un baffo. Il 22 giugno fu salvata con il suo padrone, primo a lasciare il luogo del disastro.

Finì che Nobile fu costretto a rinunciare a gradi e cariche. Qualche anno più tardi se ne andò anche dall'Italia. Dopo il dirigibile, pure il «suo» Paese. Il generale del Duce passò alla concorrenza e volò tra le braccia di Stalin. Poi, negli Stati Uniti. Si ripresentò nel '43, giusto per vedere la fine del regime e nel '46 fu deputato costituente nelle file comuniste, ma da indipendente. L'aveva voluto Togliatti. Lui, affamato di onori, non si negò. Arlecchino dei cieli.

Quando questo servitore di due padroni e padrini politici si staccò dal suolo, Baggio era già Milano. Mussolini convinse Vittorio Emanuele III a firmare un regio decreto per cancellare quel villaggio. Doveva ingrandire la metropoli. E i corpi santi sparirono. Tutti. I sobborghi della cintura divennero città. Eppure quel nome profuma d'antico. Badia aggeris - poi deturpatosi in Badagio e quindi Baggio - era un terrapieno e, al colmo, sorgeva una torre di guardia. Si sorvegliava il passaggio di strade e campagne verso Novara e Vercelli.

La paura dell'anno Mille contagiò il mondo conosciuto, ma non quel paesino che, proprio in quei secoli bui, visse il periodo più luminoso della sua storia. Collaudato centro politico e militare strategico, divenne anche il cuore pulsante del culto. E un decennio dopo lo scoccare del millennio, fu battezzato un bambino di nome Anselmo. Il cognome non si seppe mai perché, com'era usanza medioevale, il toponimo ne faceva le veci. Così Anselmo fu semplicemente da Baggio e per una cinquantina d'anni restò quello. Accadde che un coetaneo, Ildebrando - anche lui con provenienza annessa - di Soana, località del Grossetano, lo spinse sul soglio pontificio alla morte di Nicolò II. A suon di voti. E non solo religiosi. Così Anselmo si ribattezzò Alessandro.

Il primo papa eletto senza che gli imperatori ficcassero il naso decise di restare anche vescovo di Lucca. Vi fece costruire il Duomo e, come pontefice, dichiarò una guerra. Sacra. Il nemico era la simonia. Non gli piaceva il mercato. Né di cariche ecclesiastiche né di indulgenze. Fu battaglia lunga e la continuò il successore, quell'Ildebrando che lo aveva lanciato e decise di essere Gregorio VII. Oggi, un santo.

All'epoca di Anselmo, la torre di Baggio fu demolita. La sostituì un campanile. Simbolo di speranza contro la paventata fine del mondo nell'anno Mille. Struttura simile, spirito a soqquadro. Ore di preghiera. Oggi la chiesa di Sant'Apollinare esiste ancora. Anzi. Ce ne sono due. La più antica, piccola e raccolta. Suggestiva. A pochi metri la parrocchia vera. Sorveglia anche lei, a modo suo. Il degrado di un quartiere che, sull'uscio del vecchio borgo, è assediato da case dormitorio. E vecchie fabbriche in disuso. Dove la povertà chiedeva aiuto a orecchie sorde. Ma talora con dieci decimi. E benevole.

Tra i clochard si nascondeva un vecchio. Rudolf. Era, costui, uno svizzero e il 25 agosto 2004 andò allo stadio. Tifava Basilea e voleva vedere la sua squadra contendere all'Inter l'accesso alla Champion's league nel turno preliminare. Non ci fu partita. I nerazzurri ne rifilarono quattro ai rivali e l'allenatore ospite tolse la «stella» dei suoi. Rudi decise che ne aveva abbastanza e andò in bagno. Quando ne uscì, la partita era finita e gli amici spariti. Fu travolto dall'onda dei tifosi con venti euro in tasca e senza telefonino. Nel giro di un'oretta si ritrovò solo. Solo a San Siro.

Il dio dei vagabondi lo sospinse tra le catapecchie di Baggio. A sopravvivere di elemosina. Imparò a odiare l'Inter e divenne milanista. Ma al bar chiedeva del Basilea. Poi qualcuno gli regalò la maglia di Kakà e altri offrivano una birra a quel barbone dall'accento tedesco. Senza parenti. Senza amici. Senza nessuno. Ma educato e taciturno. In Svizzera aveva rifiutato di tornare, nonostante la colletta di qualche generoso. L'ha tradito il marciapiede. È inciampato e si è rotto il femore.

All'ospedale, quell'anziano viandante che aveva sempre fatto mistero su nome, età e provenienza fu obbligato a «cantare». E il console rimpatriò il vecchio. Dopo undici anni all'addiaccio, anche lui lasciò il cielo di Baggio.

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