Un bar al Greenwich Village. Il posto giusto per rovinarsi

Scritto negli anni '50 da una delle penne più affilate d'America, il libro sbeffeggia la vita bohémien di New York (che l'autrice conosceva molto bene)

Un bar al Greenwich Village. Il posto giusto per rovinarsi

Eleonora BarbieriI critici americani degli anni '50 dicevano che Dawn Powell riuscisse a scrivere libri molto gradevoli su persone molto sgradevoli. Non che tutti i personaggi di Café Julien siano insopportabili: ma molti sì. Artisti o pseudo tali con codazzo di giovani donne che non vedono l'ora di andare a letto con loro, recensori esperti di tutto e di nulla, ricche signore che giocano a fare le poveracce coi poveracci veri (cioè gli aspiranti artisti), graziose socialité che si fanno strada accompagnandosi a signori importanti e soli, editori falliti, giornalisti ignoranti e senza pudore, scrittori boriosi, alto borghesi in cerca di mariti per figlie brutte. Tutti a caccia di qualche briciola di successo, di soldi ovviamente, sesso, alcol e almeno un po' di quell'aria di avercela fatta. Perché è la New York del 1948, è una sera d'inverno, la guerra è finita, i gloriosi anni Venti sono un ricordo ma ancora fanno sognare, e il Village è il centro della vita bohémien, creativa e ostentatamente anticonformista della città: lì, a due passi da Washington Square, c'è un locale che imita quelli parigini, il Café Julien appunto, che dà il titolo al romanzo della Powell (Fazi, pagg. 366, euro 18), originariamente The Wicked Pavilion (1954). Nella realtà era il Lafayette Hotel, il bar prediletto dalla scrittrice fino a che fu demolito per lasciare spazio a un grande condominio residenziale: a quel punto la Powell si spostò al Cedar Bar, ritrovo di Pollock e de Kooning e dei seguaci dell'Espressionismo astratto. Ma quello che conta è lo spirito del luogo: una «stazione di transito» dove gli incerti dell'esistenza potevano continuare a procastinare le decisioni (e indecisioni), dove «uno poteva anche sentirsi solo, frustrato o disperato, ma almeno non era vincolato».Al Café Julien «chi odiava casa sua poteva appendere il cappello» e Dawn Powell conosceva bene questa sensazione, perché la giovane e brillante ragazza dell'Ohio era scappata dalla matrigna crudele a 13 anni ed era arrivata a New York a 21, nel 1918, con quattordici dollari in tasca e una convinzione: «È scritto che io andrò a New York». Come racconta la biografia di Tim Page (Dawn Powell: una biografia, Fazi), alle famigliole felici, che non conosceva, perché anche da adulta fu tormentata da un matrimonio turbolento e pieno di tradimenti e dalla malattia del figlio, la Powell preferiva il bar, il suo tavolino da cui osservava le vite degli altri, come il suo alter ego Dennis Orphen, che apre e chiude il romanzo. Café Julien ruota attorno a quel tavolo, davanti al quale le persone passano e svaniscono, secondo lo spirito di una città in cui, dice la Powell, «le tragedie interiori, per quanto intense, vengono osservate attraverso lo sgargiante merletto della vita di New York». Nella sua leggerezza, nel divertimento che ispira la stessa autrice, che pure era parte di quel mondo, a punzecchiarlo e a svelarne le incoerenze, e soprattutto la solitudine radicale, non c'è indignazione, non c'è moralismo: perciò la Powell non era amata né dai conservatori, né dalla sinistra, perché se la godeva troppo e non ne faceva mistero. Però anche i critici letterari, spiega Tim Page, erano infastiditi dalla sua «arguzia e spietatezza» e, soprattutto, dalla perfidia con cui descriveva «gli aspetti voraci dell'intellighenzia», come scriveva Edith H. Walton sul New York Times. Per esempio c'è Okie, la «comparsa» per qualunque occasione, che tenta di raggiungere fama e denaro stando appiccicato a Cynthia Earle, la mecenate che rimanda a Peggy Guggenheim, ricca e innamorata dell'arte e degli artisti, finta bambina capricciosa e sola. E poi ci sono Dalzell Sloane e Ben Forrester, artisti falliti che vivono dipingendo quadri firmati a nome dell'amico scomparso Marius, ignorato dalla critica in vita e osannato da morto. «Il più grande favore che Marius l'uomo avesse mai fatto a Marius l'artista fu di morire al momento giusto», ma è un favore che si estende a critici, galleristi, giornalisti, finti conoscenti e perfino ai suoi due unici amici, che ne approfittano per fare soldi. I dollari sono l'ossessione di fondo, che pervade l'intera città: «L'aria era denaro, il fuoco era denaro, l'acqua era denaro, il bisogno, la ricerca, l'avidità di denaro. L'amore era denaro. O denaro o morte».Però non c'è condanna e nemmeno compiacimento nella Powell: lei si definiva «una scrittrice realista», che amava le persone in tutte le loro sfaccettature, anche le peggiori, e le descriveva per ciò che erano. E ciò che erano emergeva sempre dopo qualche bicchiere al Café Julien, tanto che poi, una volta usciti, tutti apparivano «rimpiccioliti», «i loro ego da caffè conservati dentro il portapillole nella tasca del panciotto come granuli di morfina».Per la Powell, che sapeva «quanto siamo soli, tutti quanti», l'unico anestetico era invece l'umorismo. Aveva molti amici, fra cui John Dos Passos e frequentava la casa di Gerald e Sara Murphy, la coppia glamour e milionaria che ispirò Tenera è la notte di Fitzgerald e il cui salotto ospitava gente come Hemingway e Dorothy Parker.

Anche se poi davvero morì sola, nel 1965, e fu sepolta in una fossa collettiva a Hart Island, fino a che vent'anni dopo Gore Vidal rilanciò le sue opere, definendola «la nostra migliore romanziera della metà del secolo».

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