Doveva essere una chiamata alle armi del popolo leghista contro il governo Monti, una raccolta di firme per chiedere di abbandonare l'euro e l'abolizione della tassa sulla casa. E, invece, i 1.500 gazebo organizzati per il fine settimana del 20 e 21 ottobre dal Carroccio si trasformeranno in un referendum pro o contro Formigoni. È questa «l'idea matta» annunciata dal segretario lombardo Matteo Salvini giovedì notte di fronte a 800 militanti (e decine di giornalisti) nell'auditorium di via Corridoni dopo il vertice romano Pdl-Lega che aveva allungato la vita alla giunta Formigoni.
«La Lega con la 'ndrangheta non c'entra un c...», lo striscione srotolato dai militanti davanti ai relatori. E Salvini dal palco è pronto a dar voce alla rabbia dei militanti, per nulla disposti a mandar giù l'ennesimo rospo cucinato dal Celeste. «Noi non facciamo da stampella a nessuno», la minaccia di Salvini dopo l'arresto dell'assessore Domenico Zambetti, accusato di aver comprato voti dalle cosche calabresi. «Quando si parla di mafia - l'assalto di Salvini - la buona amministrazione passa in secondo piano». E ieri ai microfoni della Zanzara ha detto che «Formigoni dovrebbe contenere la sua arroganza. Invece di ringraziare Padre Pio per essere dov'è, continua a dispensare lezioni». Non solo. «Fossi in lui mi sarei già dimesso, il primo momento possibile per votare sarà in primavera. E se Formigoni non si dimette, lo facciamo dimettere noi».
Un intervento a gamba tesa sul governatore che lo ha scavalcato, pretendendo di trattare direttamente con Roberto Maroni. Il numero uno di un partito che però ha avuto una mutazione genetica di cui Formigoni non ha tenuto conto. Perché la Lega 2.0 dell'era post Bossi, oltre ad aver annunciato la svolta tecnologica, non è più il partito del pensiero unico. L'unico movimento leninista sopravvissuto in cui la parola del «Capo» (come dirigenti e militanti hanno sempre chiamato il Senatùr) era verbo. Ora se Maroni a Roma fa la colomba rassicurando Formigoni, Salvini a Milano può essere falco chiedendo lo sfratto della giunta e una resa dei conti già dopo Natale.
«Il panettone lo mangiamo, per la colomba dipende dallo scontro tra Maroni e Salvini», è il telegramma dettato a notte fonda da un consigliere regionale del Pdl dopo l'incontro con il gruppo convocato l'altra sera da Formigoni di ritorno da Roma dopo il vertice della pace (o meglio della tregua) con Maroni e Angelino Alfano. Segno che ormai anche nella Lega ci son due anime. E se Maroni, almeno in pubblico, mostra la faccia buona, l'anima dura e pura del partito è già pronta a candidare Maroni al governo della Lombardia. O magari lo stesso Salvini, se il segretario decidesse di occuparsi a tempo pieno del partito. Perché, dicono in via Bellerio, «visti i sondaggi della Lega che, detto da Enrico Mentana, sono risaliti al 6,7 per cento e con un candidato del centrosinistra come Bruno Tabacci, l'uomo dei poteri forti e delle banche che affamano il popolo, la Lega con Maroni può vincere anche correndo da sola». E allora è difficile dar credito a Formigoni che ieri ha detto di aver «sentito Maroni, con lui c'è grande sintonia e simpatia reciproca». Perché il referendum tra i militanti è una dichiarazione di guerra. «In contrasto con Maroni? Sono il segretario della Lega lombarda - taglia corto Salvini - E sulla giunta Formigoni decido io». Immediata la reazione del governatore che assicura di non sentirsi ostaggio della Lega. «Nessun mandato a termine - spiega -, la Lega è Maroni.
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