«La mercificazione dei corpi, soprattutto - ma non solo - di quello delle donne, è un sintomo di imbarbarimento e non di libertà». Le parole belle e condivisibili di Anita Sonego, presidente della commissione Pari opportunità, arrivano dopo l'approvazione di una delibera della giunta Pisapia contro la pubblicità sessista, discriminatoria e lesiva della dignità delle donne.
Manifesti e cartelloni decorosi, che rispettino quel che un tempo si chiamava comune senso del pudore e che oggi la delibera definisce il comune senso del «normale». Sugli spazi pubblicitari che dipendono dal Comune (anche da società e enti partecipati) non potranno essere affissi immagini e slogan che offrano «stereotipi avvilenti per la dignità delle persone».
Ma è difficile capire che cosa intenda Palazzo Marino nel giorno in cui sfilano per le vie delle città maschi che esibiscono i propri corpi seminudi nel Gay Pride, in modo non lontano dalla «mercificazione» che la delibera vuole combattere.
Se l'obiettivo è cancellare «immagini volgari, indecenti, ripugnanti, devianti da quello che la comunità percepisce come normale», perché apprezzare addirittura con un patrocinio una manifestazione come il Gay Pride, che fa dell'esibizione sessuale un vanto? Il corpo del maschio omosessuale che sfila rischia di trasmettere proprio ciò che la delibera combatte: uno dei «messaggi discriminatori e/o degradanti che, anche attraverso l'uso di stereotipi, tendono a collocare in ruoli di subalternità e disparità».
Il rispetto per la sfera sessuale, il no alla mercificazione del corpo, perché non sia rappresentato quale «oggetto di possesso o sopraffazione sessuale», sono criteri validi per una donna come per un uomo, e naturalmente anche per una donna o per un uomo omosessuale.
Non è chiaro perché Palazzo Marino presenti in pompa magna una manifestazione dello stile del Gay Pride e contemporaneamente vari una delibera contro la pubblicità sessista. Contraddizione o confusione?
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