Delpini, il vescovo alla mano che mostra di essere di polso

In Duomo, dopo i sorrisi, una lacrima gli riga il viso: "Intendo essere fedele solo al mandato del Signore"

Delpini, il vescovo alla mano che mostra di essere di polso

Entra sorridente ma una lacrima gli scende sul volto quando in Duomo si asside per la prima volta sulla cattedra di Ambrogio, e il verbo rende a pieno l'idea del momento. L'uomo alla mano che si muove in bicicletta, guida l'auto da sé, non ama le formalità, fa il suo ingresso ufficiale in Diocesi e vive fino in fondo la solennità dell'ora. Mario Delpini è il centoquarantacinquesimo arcivescovo di Milano, secondo la cronotassi della lapide che si trova in Duomo, o forse il centoquarantaquattresimo, seguendo un'altra ricostruzione degli storici, perché oggi è anche un po' questo, storia.

«La dignità non è essere arcivescovo ma figlio di Dio» ha dichiarato nella basilica di sant'Eustorgio. Eccolo in Duomo. «Fratelli, sorelle» si rivolge ai cristiani di altre confessioni, ai figli di Israele, agli uomini di fede islamica, a coloro che escludono Dio dal loro orizzonte di vita, in cattedrale come le autorità che siedono in prima fila. «Fratello» è il sindaco di sinistra Giuseppe Sala e il presidente della Regione di centrodestra, Roberto Maroni, è «sorella» il prefetto, Luciana Lamorgese. «Vi sorprenderà» ha ripetuto spesso il cardinale Angelo Scola, parlando del suo successore. E forse per i politici abituati a essere fustigati più che abbracciati è «fratelli» la parola inattesa.

Non sembra un astratto vogliamoci bene: «Non intendo rinunciare alla mia responsabilità di esercitare in mezzo a voi un magistero, non intendo sottrarmi alle fatiche del governo». E nella scelta di termini che non a tutti piacciono nella Chiesa, magistero e governo, c'è la consapevolezza di volere, anzi dover avere l'ultima parola. Chiede ai sacerdoti un'altra qualità desueta, «l'obbedienza», insieme a «correzione e comprensione» per le sue «prevedibili inadeguatezze». Tenerezza e fermezza, missione quasi impossibile.

«Non ti dirò che questo pastorale ti sarà pesante, perché la tua lunga esperienza ti consente di saperlo di già» gli ha appena detto il cardinale Angelo Scola, cedendogli il vincastro di san Carlo Borromeo. Parafrasa Carlo Maria Martini, che nel 2002 lo definì «pesante» quando a raccogliere la sua eredità era stato Dionigi Tettamanzi. Nell'abbraccio festoso tra i due si intravede «la gioia» di cui parla l'omelia. Ma la Diocesi di Milano è tra le più grandi del mondo e basterebbe già questo a spiegare il peso di guidarla, ma tutti sanno (anche se in pochi lo dicono) che un'inchiesta per un sospetto abuso su un minore, forse sottovalutato, rischia di toccare i vertici della Chiesa ambrosiana e a ottobre è in calendario un'udienza. Anche per chi non teme la verità, il momento si annuncia difficile.

Lo sguardo rimane positivo: «Non disperate dell'umanità, dei giovani di oggi, della società così come è adesso e del suo futuro». Quasi declama dal pulpito alto: «Non parlate troppo male dell'uomo». Ringrazia il cardinale Colombo che l'ha ordinato prete, Martini che gli ha affidato il seminario, Tettamanzi che l'ha voluto suo vicario di zona, Scola che gli ha trasmesso le consegne «con tanta delicatezza e premurosa attenzione».

Un impegno netto: «Nel solco segnato da chi mi ha preceduto, ho intenzione di essere fedele solo al mandato del Signore», «in comunione, affettuosa, coraggiosa, grata, con il Santo Padre, Papa Francesco, che mi ha chiamato a questo compito e che ispira il mio ministero». La chiarezza non manca.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica