Dissacrante e malizioso il kitsch (d’autore) si mette in bella mostra

Dissacrante e malizioso il kitsch (d’autore) si mette in bella mostra

Uno dice «è kitsch» e pensa al lusso sfrontato degli arricchiti, alle cineserie dei venditori ambulanti, agli eccessi delle terrazze romane che fanno arricciare il naso alla Milano-bene. Ma il kitsch può essere una forma d’arte, se realizzato in modo consapevole (leggi: autoironico). Ne è convinto da sempre il decano dell’arte italiana, Gillo Dorfles, classe 1910, natali triestini ma milanese d’adozione (proprio per i suoi cento anni Palazzo Reale ospitò una sua ampia personale). Quella ricerca dell’eccesso, del pacchiano, dell’esasperato che si ferma solo un attimo prima del precipizio che porta al cattivo gusto è una forma d’arte da capire e studiare: Dorfles lo fece già nel '68 scrivendo per i tipi delle edizioni Mazzotta Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, ancora oggi un cult della saggistica di settore.
Adesso la Triennale di Milano costruisce un’intera (da tempo annunciata) mostra sull’argomento dal titolo «Gillo Dorfles. Kitsch - oggi il kitsch» (da domani e fino al 10 settembre), curata da Aldo Colonetti, Franco Origoni, Luigi Sansone e Anna Steiner con lo stesso Dorfles che, instancabile, quest’anno ha dato alle stampe per Castelvecchi anche il saggio Il feticcio quotidiano. Provocatorio, dissacrante, malizioso, popolare: come altro definire un’opera kitsch? Se un esempio può bastare per tutti, basta pensare a quella firmata da Marcel Duchamp stampando una cartolina della Gioconda cui sono aggiunti baffi da uomo e il cui titolo «L.H.O.O.Q.», pronunciando le lettere in francese, è dissacrante. Grazie a questa sua forza il kitsch, dal Novecento a oggi, è stato capace di entrare nei musei, conquistare la cultura di massa (vedi il successo degli oggetti firmati da Fiorucci, alcuni dei quali in mostra in Triennale) e anche di circolare tra le bacheche di Facebook. Il viaggio nel kitsch comincia in Triennale con «autori, i quali volutamente usano citazioni kitsch» (Gillo Dorfles dixit): Adriana Bisi Fabbri con «Salomè di fronte (passo di danza)» e «Salomè a tergo (Mossa di danza)» del 1911, che rappresenta il personaggio biblico con rotondità paradossalmente eccessive per non parlare del raffinato Alberto Savinio, fratello del più noto Giorgio De Chirico, che con «Penelope», una tela del ’33, rivive con ironia il mito classico. Passiamo poi a Gianfilippo Usellini che con la sua «Donna con la coda» del 1970, riporta con ironico paradosso a una primitiva condizione animale e ancora Enrico Baj, al tempo stesso gioioso e pensoso, che con «Madame Garonne» assembla materiali diversi per denunciare la corruzione del gusto causata dalla cultura del prodotto industriale. Non poteva mancare in mostra in Triennale il «re del kitsch», colui che eresse il kitsch a stile di vita (e motivo di fama), ovvero Salvador Dalì, di cui è esposta, tra le altre opere, la sua celebre «Gala» e la «Leda Atomica».
L’esposizione prosegue con alcuni autori definiti da Dorfles «deliberatamente kitsch», ovvero con artisti che «intenzionalmente, creano opere con elementi che fanno riferimento alla cultura del kitsch»: spiccano Luigi Ontani, Corrado Bonini, Mario Molinari e anche il gruppo Cracking Art, che già a Milano fece diverse mostre pubbliche, con il suo omaggio ironico a Dalì. Ampio spazio è dedicato all’artista olandese, naturalizzato italiano Rutger (Rudy) Van der Velde, grafico pubblicitario e illustratore, un giocoliere dell’arte potremmo dire. La sua «I am free - I feel free» - una gabbietta in tutto e per tutto simile a quella di Titti con dentro un piccolo uomo-automa e, al di là delle sbarre, una libellula libera - ci ricorda che il kitsch di rado è fine a se stesso e spesso è solo la metafora di qualcosa d’altro.


Interessante, infine, l’assemblaggio digitale di cinquemila immagini kitsch che animano l’ingresso della mostra con un tappeto interattivo e l’idea di chiudere il percorso di la visita con tanti oggetti kitsch di uso quotidiano. Perché, come dice Dorfles, «il kitsch è necessario conoscerlo, anche frequentarlo e, perché no, qualche volta utilizzarlo, senza farsi mai prendere la mano. Perché il cattivo gusto è sempre in agguato».

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