Cronaca locale

Il duplice delitto di San Felice ancora senza verità da 32 anni

Un architetto siriano e la figlia della sua compagna uccisi in casa a revolverate: un pentito confessa. Ma poi muore

Gabriele Borzillo

Gabriele Cantella

È il 1985. A due giorni da Ferragosto in pochi si aggirano per le vie semideserte, tutti sono già al mare. Deve partire anche un uomo d'affari arabo che vive in un lussuoso appartamento al primo piano di una palazzina al civico 35 di Strada Settima, a San Felice, dietro all'Idroscalo. Si chiama Mohammed Al Jarrah, siriano, ma di lui e dei suoi affari si sa poco. Nessuno può affermare di conoscerlo davvero, tutti sanno che è ricco. Possiede fascino e buone maniere, veste elegante, fuma la pipa, parla diverse lingue, ama la bella vita, le donne e le auto di grossa cilindrata. Si mormora vanti tra i suoi amici i regnanti di Siria e Arabia Saudita, numerosi sceicchi e persino il nababbo Khashoggi, dei quali avrebbe arredato le sfarzose dimore.

Al Jarrah non abita da solo, condivide la casa con la compagna Norina Menis, ammalata da tempo e ricoverata all'Istituto dei Tumori. Norina ha una figlia diciassettenne, Sabina, che il pomeriggio di lunedì 13 agosto 1985 si reca a far visita alla madre, accompagnata da Al Jarrah, prima di partire con lui alla volta di Lugano con ritorno a Milano programmato per il venerdì. Ma in Svizzera i due non arriveranno mai e quella sarà l'ultima volta che Norina li vedrà vivi. Una volta tornati a casa, i due scoprono di non essere soli. Qualcuno che impugna una pistola calibro 7,65 con silenziatore: sorprende Al Jarrah in camera da letto e gli scarica addosso tre colpi, di cui uno solo mortale alla carotide. Stessa sorte per Sabina, investita da una raffica di quattro colpi, tutti al torace, soltanto uno letale. Entrambi hanno il tempo di trascinarsi agonizzanti sul pavimento per qualche metro. L'assassino scorge Al Jarrah che cerca di raggiungere il telefono e ne taglia i fili. Poi fugge.

Nessuno vede né sente nulla, i vicini sono in ferie, le guardie di sorveglianza non notano niente di sospetto. La sera di venerdì 17 agosto, giorno in cui Al Jarrah e Sabina sarebbero dovuti rientrare, Norina Menis si preoccupa sospetta un rapimento o teme un omicidio. Non ha ricevuto loro notizie e, allarmata, chiede ad amici di controllare se siano a casa. Alla porta però nessuno risponde. Il telefono è staccato. Norina intuisce il peggio. Gli amici della Menis si accorgono che una finestra è socchiusa, la tapparella è in parte abbassata e proviene un terribile odore. Quando i carabinieri entrano in casa scoprono i corpi senza vita di Al Jarrah e Sabina, riversi in una pozza di sangue e in avanzato stato di decomposizione.

Nell'appartamento, arredato con sfarzo e ricco di oggetti di valore, non manca nulla. Vengono trovati diversi documenti intestati ad Al Jarrah: un passaporto saudita, una carta d'identità e tre patenti di guida, una svizzera e due libanesi. Ognuno riporta una data di nascita differente che getta un alone di mistero intorno alla reale identità della vittima. Dalle carte che Al Jarrah custodiva non emergono elementi che chiariscano l'effettiva natura dei suoi affari, ma legittimo è il sospetto che si tratti di attività illecite. Nell'alloggio si trovano diversi milioni in valuta estera e dagli accertamenti bancari eseguiti risultano decine di conti correnti a lui intestati presso istituti di credito italiani, svizzeri e inglesi. Tanta ricchezza non corrisponde però al volume d'affari dell'uomo, ufficialmente architetto, arredatore e commerciante di mobili, oggetti preziosi e apparecchiature elettroniche. Tale disponibilità economica lascia pensare a un traffico internazionale di armi o sostanze stupefacenti, ma non ci sono prove.

Al Jarrah risulta proprietario di una serie di società di import-export, registrate in Italia e in Svizzera, tutte accomunate da insoliti aspetti: vengono aperte e chiuse in un tempo assai breve, non hanno sede, eccetto quella legale, né personale o recapito telefonico. Come ha fatto l'assassino a entrare senza farsi notare e sorprendere Al Jarrah e Sabina? Sono stati loro stessi ad aprirgli? Lo conoscevano? Possibile. Il portoncino blindato infatti non presenta segni d'effrazione ed è chiuso a chiave dall'interno. E il movente? Il killer cercava qualcosa che sapeva essere in casa? La perquisizione rivela la mancanza di documenti contenuti in una ventiquattrore, il portafogli di Al Jarrah e un secondo mazzo di chiavi che l'assassino potrebbe aver usato per chiudere la porta alle sue spalle, uscendo. Infine, in che modo si è dileguato nel nulla?

Domande senza risposta anche dopo l'interrogatorio di Norina Menis, alla quale non risulta che Al Jarrah fosse minacciato o in pericolo. La donna spiega che il suo compagno era titolare di una ditta di import-export e nulla l'aveva indotta a pensare ad attività illecite. Perché mai allora Norina teme un rapimento o addirittura un omicidio? Nel frattempo Raghed, il primo dei quattro figli di Al Jarrah, arriva in Italia e viene interrogato. Risiede a Lugano, studia gestione amministrativa e scienze economiche a Ginevra, e - quando apprende che il padre è stato ucciso - viene colto da malore. I sospetti si concentrano su di lui per alcuni recenti screzi tra i due e perché Raghed ha un mazzo di chiavi di Strada Settima 35. Non ci sono però riscontri e Raghed esce di scena. Nessuno viene indagato e il duplice omicidio di San Felice entra tra i casi irrisolti. Finché, due anni dopo, il corpo senza vita di Raghed non viene rinvenuto nel suo appartamento di Lugano.

Che la sua morte sia collegata a quella del padre? Il cadavere non presenta segni di violenza, il decesso pare dovuto a cause naturali, ma il caso assume contorni sinistri alla luce del coinvolgimento della vittima in un'inchiesta della Procura di Brescia su un traffico internazionale d'armi. Il figlio di Al Jarrah aveva rilevato dal padre una delle società, la Mja, che ufficialmente commerciava giocattoli. La magistratura bresciana si domanda quale sia la reale attività di Raghed: commerciante d'armi o di giocattoli? Secondo le testimonianze, la Mja sarebbe servita da copertura per un traffico di kalashnikov e penne-pistola ma mancano prove. Le domande restano senza risposta e cala il silenzio, squarciato anni dopo dalle dichiarazioni del pentito di mafia Rosario Spatola, che rivela al giudice Paolo Borsellino di aver conosciuto personalmente Raghed in Svizzera e di conoscere importanti verità su di lui.

Sarebbe stato proprio il figlio maggiore di Al Jarrah a uccidere il padre e Sabina Menis, per traffici illeciti gestiti dai due ma, con la morte di Borsellino e quella successiva di Spatola, svanisce ogni possibilità di scoprire la verità sul duplice omicidio di San Felice e sulla morte di Raghed.

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