Un referendum, quello sull'autonomia della Lombardia, che pare determinato a portare a casa, sia che lo si accorpi alle elezioni politiche (quando si terranno) o alle prossime amministrative, sia che vada indetto separatamente. Un indice di gradimento che lo posiziona tra i governatori più amati d'Italia dopo il veneto Luca Zaia e il toscano Enrico Rossi. Un sano pragmatismo che ha chiarito, qualora ce ne fosse bisogno, che una Lega di governo, alternativa a quella salviniana di lotta, c'è e sa fare il suo mestiere. Una capacità politica di trattare con i grillini che scalpitano ogni due per tre. L'identificazione con quel modello Lombardia che si è rivelato l'unico schema di coalizione vincente per il centrodestra in Italia. Una Regione che potrebbe volare col pilota automatico, con un debito pubblico cui le agenzie internazionali di rating regalano un bel grado di affidabilità. Una buona ordinaria amministrazione che, di questi tempi, non è poco. Una riforma della sanità che ancora stenta a decollare ma che, nella logica della prossimità con il territorio, può diventare il tema principe della campagna elettorale. Insieme a qualche taglio di nastro che il patto per la Lombardia, firmato prima della Caporetto renziana del 4 dicembre, dovrebbe garantire con i suoi 11 miliardi promessi. Il tutto condito con la voce grossa che Bobo sta mettendo in campo con il ministro Minniti per quanto riguarda immigrazione e relative quote.
I maligni e gli avversari politici faticano a vedere in Maroni e nella sua giunta la rivoluzione che era stata promessa dopo l'era Formigoni. Eppure bastano questi elementi per credere, sorprese processuali a parte, che l'attuale presidente lombardo possa incassare con disinvoltura il secondo mandato. Indizi a cui va aggiunto un dato politico importante: e cioè la debolezza del Partito Democratico dopo la botta sul referendum costituzionale. Il segretario regionale Alessandro Alfieri, che nelle scorse comunali ha soffiato proprio a Maroni la sua Varese, ha una bella gatta da pelare: restituire ai territori quella fiducia nel partito che Matteo Renzi in due anni ha polverizzato. E non basterà certo l'annuncio dell'iniziativa di ascolto Nord sud ovest est lanciata la scorsa settimana. Così come sarà difficile convincere i lombardi, dopo la dura bocciatura di una riforma costituzionale fortemente centralista, che si possa trattare sul regionalismo differenziato con una gita a Palazzo Chigi: perché se è vero che i 46,5 milioni di euro preventivati per il referendum autonomista non sono poca cosa, è anche vero che i cittadini sono stanchi di vedersi svuotare le tasche per mantenere mezzo Paese. Senza contare che la caduta del premier - anche nella sua veste di leader dem - ha riaperto le battaglie correntizie anche a livello locale. Chi candiderà il Pd nel tentativo di detronizzare Maroni? La spunteranno i renziani della prima ora con Alfieri (che ha dato recentemente la sua disponibilità a correre) o il sindaco di Bergamo Giorgio Gori o quelli della seconda con il ministro Maurizio Martina? O ancora: la sinistra del consigliere Onorio Rosati o i cattodem di Fabio Pizzul? L'unità, a sinistra, è ormai solo il nome di una velina governativa e questo peserà molto da qui al 2018.
Maroni lo sa bene e gioca d'anticipo: Faremo un programma per i prossimi cinque anni, ha dichiarato in un'intervista alla Rai, una lista civica ci sarà sicuramente. E sarà il serbatoio di chi non si riconosce in nessuna forza partitica tradizionale ma nemmeno nei cinque Stelle: uno status che di questi tempi va parecchio di moda.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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