Quando, una lontana sera del 1993, Carlo Maria Giulini scese dal podio dell'ex cinema Abanella dopo aver completato, con l'orchestra della Scala, la prima integrale sinfonica beethoveniana (o quasi: la Nona restò solo nelle intenzioni) eseguita da una celebre compagine italiana, era difficile immaginare che, per un quarto di secolo, il pubblico milanese non avrebbe più sentito, uno dopo l'altro dal vivo, i nove capolavori del genio di Bonn. Ebbene, dopo quasi 25 anni questo momento è arrivato: un lasso di tempo che ha dell'incredibile, se pensiamo che si tratta di uno dei cicli più suonati, e amati, della storia della musica.
È questa la carta giocata da Claus Peter Flor, che in questi giorni esordisce come direttore musicale della Verdi con una maratona di 5 concerti, fino al 19 luglio (sempre alle 20.30, Auditorium Fondazione Cariplo, largo Gustav Mahler), in cui si misura con la - l'articolo determinativo non è una svista - pietra miliare del sinfonismo classico-romantico. Un «macrotesto» di solida coerenza e raro equilibrio, in cui ogni sinfonia, e ogni singolo movimento, dialoga con le altre parti arricchendole di significato, fra rimandi alla tradizione e arditi slanci innovativi. «Ancora Beethoven?», si chiederanno i puristi, proprio mentre fa discutere l'ennesima integrale «filologicamente corretta», a firma di Paavo Järvi, basata sulla nuova edizione critica Bärenreiter. Ed è solo l'ultimissimo di una serie infinita di possibili confronti. Di cui Flor, che di esperienza nel sinfonismo austro-germanico ne ha da vendere, anche con laVerdi (sua l'ultima bellissima Corale di Capodanno, ma sua anche la prima, nel 1999), non mostra alcun timore: «Le sinfonie di Beethoven sono il banco di prova ideale per mostrare le mie scelte interpretative e il lavoro che sto facendo con l'orchestra». I primi effetti si sono già sentiti giovedì con un programma che ha inquadrato l'incontro-scontro fra i manzoniani «due secoli l'un contro l'altro armato», rappresentati dalle prime due «dispari»: la Prima, dal sapore neoclassico, composta agli sgoccioli del '700, e l'Eroica, che già riflette il clima hegeliano del secolo successivo.
Il criterio pari-dispari viene subito abbandonato per abbracciarne uno più cronologico e di catalogo: domenica, fra intimismo e imponenza, è la volta di Quarta e Quinta, due lavori che - seppur molto vicini nel tempo - non potrebbero suonare più differenti per concezione e significato. L'op. 60, che data 1806, è un delicato capolavoro stretto fra due titaniche «rivali», paragonato da Robert Schumann a una «kore» greca modesta e apollinea.
Tutti conoscono invece l'appariscente Quinta (op. 67, 1808), nota come «sinfonia del destino», che ha contribuito al mito beethoveniano grazie anche alle immortali esecuzioni di Toscanini, Furtwängler, Klemperer, Karajan e altri giganti del podio. Si prosegue giovedì 13 con Sesta e Settima, un'accoppiata suggestiva che accosta il vertice del Beethoven lirico e il culmine della fase eroica.
Le due
«pari» antipodiche, Seconda e Ottava, arrivano domenica 16 insieme alle due romanze per violino e orchestra, mentre la monumentale Nona (per la cronaca: quella di fine anno è affidata a Elio Boncompagni) chiude il ciclo il 19.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.