Luca FazzoUn lapsus. Così, nel più banale e confortante dei modi, l'ex giudice Adriano Leo cerca ieri di spiegare il misterioso episodio che lo vide protagonista quando presiedeva la terza sezione del Tar: e scrisse una sentenza diversa da quella che era stata decisa in camera di consiglio insieme ai suoi colleghi. Non era una sentenza da poco: sul tavolo c'era il ricorso del Comune per bloccare la stangata da 450 milioni che rischiava di mandare al fallimento Sea Handling, la controllata di Sea che si occupa della logistica negli aeroporti milanesi.Per quella sentenza, Leo è finito sotto processo per falso in atto d'ufficio. Ieri tocca a lui venire interrogato in aula, davanti al giudice Giulia Turri, dal pm Roberto Pellicano. E il suo interrogatorio non dissipa i dubbi che gravano sulla vicenda, il sospetto che manovre sotterranee siano state emesse in atto per garantire il successo del ricorso del Comune. Al punto che la sentenza venne portata in camera di consiglio da Leo praticamente già scritta, lasciando stupiti gli altri giudici del collegio: anche perché, ha spiegato uno di loro, Leo non aveva mai mostrato di possedere tali raffinatezze giuridiche. «Sviluppava argomentazioni tecniche che normalmente non appartengono al presidente Leo, che quasi mai nelle camere di consiglio si sofferma sugli aspetti tecnici delle questioni».Che a Palazzo Marino quel ricorso stesse fin troppo a cuore lo ha confermato, prima che venisse interrogato Leo, un altro giudice del Tar, Domenico Giordano. Giordano, anche lui presidente di sezione, ha raccontato di avere incontrato qualche giorno prima dell'udienza nel cortile del Tar Maria Rita Surano, allora capo dell'avvocatura comunale, che tirò fuori il problema del ricorso Sea Handling, e gli dipinse con toni foschi le conseguenze che avrebbe avuto sull'occupazione una bocciatura del ricorso presentato da Palazzo Marino. A giudicare illecito lo stanziamento del Comune a favore di Sea Handling, realizzato sotto forma di aumento di capitale di Sea, era stata la Commissione Europea, che lo aveva considerato una forma di aiuto di Stato, proibito dalle norme sulla concorrenza. La presidenza del Consiglio italiana, su mandato di Bruxelles, aveva ordinato al Comune di recuperare la somma. Il Comune presentò ricorso. E quando Leo depositò la sentenza, si scoprì che aveva dichiarato nullo non solo il decreto di Palazzo Chigi ma anche il provvedimento della Commissione europea.
Una vittoria su tutta la linea, che metteva il Comune al riparo da ulteriori rischi. Peccato che in camera di consiglio gli altri due giudici si fossero esplicitamente opposti a bocciare anche il provvedimento comunitario. «Fu un lapsus», dice oggi Leo: ma un lapsus ostinatamente sostenuto.Giudice inguaia giudice: per la sentenza Sea pressioni dal Comune
L'ex toga del Tar Leo, a processo, si giustifica: «Verdetto sbagliato? Un lapsus». Ma il collega lo smaschera
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