E adesso ispettore superiore Luigi Romano? Adesso che a 60 anni e dopo 40 di servizio in polizia - dopo giorni e notti trascorsi tra la Polmetro, i «Falchi» e la squadra antiborseggio della Mobile - con i colleghi che la stimano, ladri e truffatori che ancora la riconoscono e la rispettano al punto che, se si accorgono di lei, le vengono incontro e le consegnano il portafoglio appena rubato, scusandosi e magari raccomandandosi di restituirlo con tutte le cautele al malcapitato, beh, al momento di andare in pensione, come se la immagina la sua vita? «Semplicemente non me la immagino. Vorrei dare un taglio netto: in fondo ho una famiglia, un figlio in polizia, sono già nonno. Il problema è che qui lavoriamo molto seriamente, ma ci divertiamo anche».
Ci sono persone che ci piacciono. Poi luoghi, situazioni, frangenti. E infine ci sono lavori e professioni dalle quali staccarsi, quando arriva il momento, diventa un dramma. È difficile pensare di fare altro. Figuriamoci tutt'altro.
È così per l'ispettore Romano, leccese di Maglie ma a Milano in polizia dalla fine degli anni Ottanta. Un uomo che ha attraversato la professione come un virtuoso capace di suonare più strumenti. Al punto che anche i malviventi lo riconoscono e lo chiamano «senior», con l'ammirazione obliqua che solo coloro che militano nel lato oscuro della forza sanno riservare agli avversari.
«Ho iniziato negli anni Ottanta, quando in metropolitana si cominciavano a fare i primi arresti e c'erano squadre di borseggiatori slavi, italiani e sudamericani, tutti molto agguerriti. Gente talmente distinta a cui i passeggeri lasciavano il posto a sedere e poi ci guardavano male se li arrestavamo. Uno di loro, slavo intelligentissimo, campione di scacchi nel suo Paese, l'ho catturato nuovamente, dopo vent'anni, qualche tempo fa. Ma Romano, sei ancora in servizio? mi ha chiesto. Ed sembrava quasi contento di farsi arrestare».
Attraverso le parole dell'ispettore che da anni guida la Squadra antiborseggio, si svela la storia del crimine milanese, si modulano tempi e personaggi. E ai ricordi si abbinano i successi, le reti messe a segno. Ad esempio l'arresto di quello sceicco o principe che per anni, con i suoi modi ammalianti (e, si disse, capacità ipnotiche da vero professionista) alleggerì fior di gioiellerie in Montenapo per poi sfuggire alle polizie di mezzo mondo, ma non alla Squadra mobile di Milano che lo catturò agli inizi degli anni 2000. Nello stesso periodo, quasi per caso, furono sempre Romano e i suoi collaboratori a portare alla luce il fenomeno dei Latin King. «Tutti i venerdì notte c'erano queste risse tra sudamericani in piazza Duomo: sentendo i testimoni e le vittime alla Polmetro capimmo che era tutto creato ad arte, che dietro si celavano vere e proprie iniziazioni di arruolamento per entrare a far parte di queste bande di giovani».
Naturalmente non sono sempre tutte rose e fiori. «Mi portarono davanti quello che dicevano fosse un ragazzino freddissimo, un 15enne che, mettendo la pistola in bocca alla gente, poi la rapinava. Lui si mostrò fragile, voleva portarmi da sua nonna, si profuse in scuse. Lo feci rilasciare, non poteva essere lui l'autore di colpi tanto audaci. E invece era proprio il responsabile. Quelli della mia squadra mi scrissero un messaggio. Ti dovresti dimettere, ma ti vogliamo bene».
Infine l'encomio solenne «per senso del dovere e sprezzo del pericolo» Luigi Romano lo ha ricevuto per quel che accadde il 18 aprile 2002 quando il pilota Luigi Fasulo si schiantò con il suo aereo contro il Pirellone. Tre morti e 60 feriti.
L'ispettore fu tra i primi a entrare nella struttura disastrata e portare soccorso, dopo aver allontanato la gente che affollava la strada e poteva rischiare grosso. «È stato il fatto che mi ha più segnato. Non ho dormito più per tanto tempo, sognavo sempre quel silenzio inquietante, di morte, dopo il boato. E tuttora non lo dimentico».
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