Compie quarant'anni l'ultimo mistero milanese degli anni di piombo: e l'anniversario porta con sè commozione, qualche polemica, e speranze ormai labili che la nebbia prima o poi venga diradata. Avevano diciannove anni, Lorenzo «Iaio» Iannucci e Fausto Tinelli, quando vennero ammazzati in via Mancinelli: stavano andando verso casa di Fausto, dopo essersi trovati davanti al «Leoncavallo». Non erano dei duri, dei picchiatori: ma erano ragazzi dell'ultrasinistra, calati appieno in quella temperie di asprezze e di violenze che sembrava non dovesse finire mai.
Ad aspettarli erano in tre, all'angolo della via: ma a sparare fu uno solo. Una testimone assistette al colpo di grazia ad uno dei ragazzi, già a terra rantolante. A leggere gli atti oggi, ci si sorprende della approssimazione con cui gli accertamenti vennero fatti: persino la marca delle pallottole venne indicata dai primi periti nel modo sbagliato. Dissero che erano Winchester, si scoprì poi che erano Fiocchi: e non fu l'unica sciatteria. Forse erano minori i mezzi tecnici a disposizione. O forse l'attenzione delle forze dell'ordine e degli investigatori era girata da un'altra parte, verso la caccia appena iniziata - in una Italia attonita e sconvolta - ai brigatisti rossi che due giorni prima a Roma avevano rapito Aldo Moro sterminandone la scorta.
Eppure per Milano la morte dei due ragazzi fu un trauma, una emozione più forte di quanta ne recassero le immagini raggelanti del massacro di via Fani. I due ragazzi del «Leoncavallo», per la loro età, per le loro facce e le loro storie, vennero vissuti dalla città come vittime che avrebbero potuto esservi in qualunque famiglia. Anche in quegli anni di scontri espliciti, questo fece della loro morte un lutto cittadino, e non solo della parte politica di cui erano espressione. La scelta del sindaco Beppe Sala di andare l'altro giorno a rendere omaggio alla loro memoria è, in un certo senso, la prosecuzione di quel lutto collettivo.
Non erano i primi ragazzi qualunque a venire uccisi a sangue freddo: a destra, tre anni prima, era toccato a Sergio Ramelli, ammazzato dalle chiavi inglesi di Avanguardia Operaia; tre mesi dopo Ramelli, in piazza San Babila i fascisti avevano ucciso a coltellate Alberto Brasili, colpevole di avere staccato da un muro un adesivo dell'Msi. Ma della morte di Fausto e Iaio si colse subito anche l'anomalia, il non essere spiegabile con gli schemi - orrendi ma lineari - delle vendette e delle controvendette.
Le indagini non aiutarono a rispondere alle domande che la città si poneva. Nel frattempo altri delitti - dall'omicidio di Ramelli a quello del commissario Calabresi - trovavano spiegazione e colpevoli. Sulla morte di Fausto e Iaio, un po' alla volta, iniziarono ad affastellarsi spiegazioni sempre più complesse e inevitabilmente più fumose, indimostrabili e quindi, di riflesso, non smentibili.
Fino all'ultima, quella - sia detto col rispetto dovuto a una madre che ha perso il figlio - meno ancorata a dati di fatto e sostenuta dalla famiglia di Tinelli, che lega l'agguato al covo delle Brigate Rosse in via Montenevoso, davanti al quale i servizi segreti avevano affittato un appartamento. Tinelli, che abitava lì, forse aveva visto qualcosa.La realtà forse fu più semplice, e qualcosa nelle carte dell'inchiesta affiora.
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