I dieci mesi a Vallanzasca valgono tre anni di cella

L'ergastolano condannato per il furto di mutande Cancellata la possibilità di lavorare fuori dal carcere

I dieci mesi a Vallanzasca valgono tre anni di cella

É sempre lui: Renato Vallanzasca, spaccone e fumino. Che anche davanti al giudice che potrebbe spedirlo (e di lì a poco effettivamente lo spedisce) in cella per un bel pezzo, non rinuncia a fare battute ad effetto: «Io uso solo mutande di Versace, non posso avere rubato delle Sloggy da tre euro». Che durante l'interrogatorio dei testimoni misura la gabbia a grandi passi, avanti e indietro come una tigre allo zoo. E che quando si rende conto che il giudice si prepara ad emettere la sentenza senza metterlo a confronto con il suo accusatore, sbotta e abbandona l'aula, «cazzo resto a fare, se lo fanno loro il processo, tanto hanno già deciso».

Morale della favola: il giudice Ilaria Simi de Burgis lo condanna a dieci mesi di carcere, forse la pena più alta mai inflitta a memoria d'uomo per un furto in supermercato. Dieci mesi che per Vallanzasca pesano molto di più, perché questa condanna gli impedisce per tre anni di tornare a chiedere la semilibertà e altri benefici carcerari. Le porte della galera si chiudono alle sue spalle, come per i 42 anni precedenti. Stop alle giornate a lavorare in cooperativa, basta con i weekend a casa della fidanzata. Il percorso di reinserimento che aveva faticosamente costruito nel corso degli anni si sgretola davanti alla folle serata del luglio scorso in cui chissà cosa gli prende, e all'Esselunga di viale Umbria si infila nella borsa da palestra una mutanda e una cesoia.

Per la sentenza, non ci sono dubbi, non ci sono ombre. Vallanzasca ha provato a saccheggiare il supermercato, si è fatto beccare come un pivello, e perdipiù ha minacciato il vigilante. Alla giustizia non interessano i percorsi mentali dell'imputato, non serve interrogarsi sul motivo che porta un criminale di alto profilo - rapitore, rapinatore, assassino - a declassarsi in ladruncolo. Vallanzasca è colpevole, punto e basta. Il pm Renna chiede per lui otto mesi di carcere, ed è già una pena severa che tiene conto della «storia criminale» dell'imputato e del suo comportamento nel processo, quando ha accusato lo staff del supermercato di essersi inventato tutto (uno dei testimoni si chiama Mento, e Vallanzasca lo sbeffeggia «è un nome adatto»). Il giudice va ancora più in là. Dieci mesi, e addio ai benefici. Non metterà piede fuori dal carcere fino al 2017, quando avrà ormai sessantasette anni. Quasi un vecchio.

E quasi vecchio, d'altronde, Vallanzasca lo appare davvero, ieri in aula. Maglioncino chiaro, occhiali, un po' curvo. E un po' da vecchio, un po' irrispettose del suo passato sono le scuse che cerca di accampare per tirarsi fuori d'impiccio, proclamandosi vittima di un complotto dai contorni inafferrabili di cui sarebbero complici un po' tutti: il pubblico ministero, i carabinieri, i vigilantes del supermercato e soprattutto quel personaggio impalpabile, «Pino» o «Peppino» che lo avrebbe avvicinato nei corridoi dell'Esselunga offrendosi di portargli la borsa, e ci avrebbe poi infilato le mutande rubate.

Sui motivi di questa congiura le versioni di Vallanzasca si sono evolute nel corso di questi mesi, fino ad approdare a quella messa per iscritto in un memoriale di qualche giorno fa: vogliono impedirmi di raccontare la verità sul caso del ciclista Pantani. Peccato che il caso Pantani sia esploso due mesi dopo quella sera bislacca all'Esselunga.

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