Marco Terraneo, docente di Sociologia della salute dell'Università Bicocca, dalla campagna vaccinale massiva sta emergendo come l'adesione tra la popolazione scenda con l'abbassarsi dell'età. Si è passati dal 99,7 per cento dei novantenni, al 95 degli ottantenni, all'89 dei settantenni fino al 63 per cento dei quarantenni. Come si spiega?
«La questione è molto articolata e non credo si possa dare una risposta univoca. Credo però che dipenda dalla percezione della gravità del Covid sulle proprie condizioni di salute. I giovani, e intendo la fascia fino ai 34 anni, considerano la malattia un problema individuale e non di società: pensano che non causerà loro problemi seri. Ritengono sostanzialmente che il Covid sia poco più di un'influenza e fanno fatica a valutarne le conseguenze sul lungo periodo».
Crede che sia una questione di individualismo? Di indifferenza?
«Ci sono vari spunti nella letteratura sociologica che parlano del disimpegno dei giovani: i trentenni diciamo sono concentrati su loro stessi e non valutano la valenza della vaccinazione per la comunità. Se gli altri sono vaccinati allora io sono protetto e posso evitare di farlo il ragionamento».
I no vax rientrano in questa categoria?
«In parte esiste anche un atteggiamento di opposizione al sistema che segue teorie complottistiche, secondo cui la pandemia sarebbe una costruzione di Big Pharma, ma questa è una fascia minoritaria. Io credo che tra i giovani il sentimento ricorrente sia quello del disimpegno e della scarsa attenzione alle conseguenze del proprio comportamento, il non volersi assumere delle responsabilità verso se stessi, per le eventuali conseguenze della malattia sul lungo periodo, e verso gli altri. Si tratta in fondo di giovani fino ai 25 e i 30 anni, spesso ancora a casa dei genitori, non sempre con un lavoro, che non sono ancora riusciti a costruirsi una propria famiglia: sono persone meno propense ad assumersi delle responsabilità».
Quanto incide la scarsa informazione?
«Bisognerebbe conoscere nel dettaglio le caratteristiche socio-economiche, il livello di studi di chi non si vaccina, ma sappiamo anche che chi decide di non vaccinare i propri figli appartiene alle fasce più istruite della popolazione».
I quarantenni, però dovrebbero avere caratteristiche diverse da queste.
«È qui che in parte si annida una fetta dalla popolazione che si oppone all'idea di un vaccino sperimentale. È difficile anche spiegarsi come persone inserite nel meccanismo del lavoro decidano di non vaccinarsi, quindi di non assumersi una responsabilità nei confronti della comunità. È un segnale negativo».
In parte entra in gioco il tema delle vacanze: il rischio cioè di dover rientrare per sottoporsi al richiamo?
«Probabilmente una quota di persone fa anche questo ragionamento. Ma di nuovo rientriamo in un'ottica egoistica».
Il fatto che si stiano allentando le restrizioni e che si vada verso un ritorno alla normalità può scoraggiare anche inconsapevolmente a fare il vaccino?
«Sicuramente, i comportamenti diventano più rilassati e di conseguenza si tende a pensare: aspetto che a breve sarà tutto finito e non devo correre il
rischio del vaccino, perché come tale viene percepito. La comunicazione del passaggio in zona bianca viene interpretata secondo i propri desiderata, quindi in questo caso della superata necessità di sottoporsi a profilassi».
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