«Mi trovo a milioni di chilometri da Milano». Un po' marziano lo è davvero rispetto a certi conformismi. Saggista, giornalista, Massimo Fini è nemico della globalizzazione e artefice di critiche apocalittiche sulla democrazia occidentale. La sua siderale distanza da Milano è ovviamente spirituale.
Fini, Milano è davvero una città morta?
«È una città delle solitudini, nevrotica, dove tutto è difficile».
Anche lavorare?
«Certo, pensi agli spostamenti. E poi non esiste più una vita intellettuale. Ci sono degli “eventi” ma gli scrittori la sera stanno in casa sul divano a guardare la tv».
Un po' ovunque la vita sociale è inaridita.
«Manca una vita comunitaria. Pensi a questa zona di piazza Gae Aulenti. Si può discutere se sia bella o no ma non è un luogo dove si comunica. Si passa, si visita e finisce lì. Io poi sento la mancanza dei bar, dove si parlava, col gestore, con gli avventori».
Spesso i vecchi gestori milanesi sono stati rimpiazzati. C'è stata un'ondata di acquisizioni.
«Naturalmente, ma via Padova, che è sempre stata interessante, magari può risultare anche pericolosa, almeno è viva».
Milano forse, come sempre, è solo avanti rispetto al Paese.
«Milano è ovviamente all'avanguardia. Prima però c'erano gli imprenditori, oggi i manager. Io ho lavorato alla Pirelli. Ricordo quel mondo, c'era un rapporto umano».
Expo ha accelerato questa vocazione al moderno o è stata solo una delusione?
«Queste esposizioni sono nate nell'Ottocento. Allora avevano un senso. Oggi non più. Comunque la gente che va all'Expo non va a Milano, Expo non ha portato nulla. È stata un'operazione speculativa».
Il lavoro del sindaco Giuliano Pisapia, e il suo passo indietro, come lo valuta?
«Fare il sindaco è difficilissimo. Si dovevano fare 40 anni fa alcune cose. Oggi c'è un milione e mezzo di persone che ogni giorno entra in città. Come si governa questa cosa? Il sindaco è paralizzato, non è colpa sua. Vale per Pisapia come per Letizia Moratti. Certamente Pisapia è una persona onesta. Ma l'onestà non basta».
Quindi?
«Servirebbe un urbanista. Questa specie di Manhattan che hanno fatto è totalmente estranea alla città. Milano non è mai stata città di grattacieli. C'era il Pirellone e la Velasca, per il resto palazzi e case popolari. Io davanti alla mia finestra ho un grattacielo a banana».
Queste torri sono il simbolo di un'ambizione?
«La città si uniforma alla globalizzazione. Sono artificiali, corpi estranei».
Le periferia sono le vere eredi della milanesità?
«Sì, via Padova, Affori. A Milano prima c'erano negozi, drogherie. Sono andati via per far posto a grandi centri dove lavorano commesse che stanno peggio che una volta in fabbrica».
Avremo due minareti.
«Non dobbiamo diventare isterici per questo. Forse controllare ma non è una moschea a cambiare le cose».
L'immigrazione oggi è come quella del dopoguerra?
«Quella era diversa. E Milano era città dell'accoglienza. Non c'è mai stata un'emergenza. L'immigrazione, prima da Veneto e Friuli e poi dal Sud, si è integrata benissimo».
E questa ondata?
«È più difficile.
L'emergenza c'è e non può che aumentare. L'abbiamo indotta noi con lo sfruttamento. Milano rischia di costruire ghetti. Solo Londra è multiculturale. Altrove vedo ghetti con comunità diverse, alcune violente anche perché vitali. Noi non siamo più vitali».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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