Lea Garofalo, la testimone di giustizia calabrese sequestrata e uccisa a Milano nel novembre 2009, venne ammazzata da Carlo Cosco, che fece sparire il corpo bruciandolo, perché quest'ultimo, suo ex compagno, «nutriva un odio profondo verso di lei che l'aveva abbandonato e soffriva del disonore tipico degli ambienti criminali mafiosi». Lo ha spiegato nella requisitoria del processo d'Appello il pm Marcello Tatangelo, chiarendo che la Procura non ha mai contestato l'aggravante della finalità mafiosa. In primo grado, nel marzo del 2012, per l'omicidio di Lea erano arrivati sei ergastoli: per Carlo Cosco, per i suoi due fratelli Vito e Giuseppe e per Carmine Venturino, Massimo Sabatino e Rosario Curcio. Poi lo scorso luglio, Venturino ha iniziato a collaborare con i magistrati e ha raccontato come e perchè era stata uccisa la donna. Il pentito ha spiegato, in sostanza, che Lea, che aveva raccontato in passato fatti di sangue di una faida di 'ndrangheta, venne strangolata da Carlo e Vito Cosco e poi lui e Rosario Curcio fecero sparire il corpo, non sciogliendolo nell'acido come si era detto nel processo di primo grado, ma bruciandolo e gettando i resti in un tombino di un capannone a Monza. Il collaboratore ha anche aiutato gli investigatori a ritrovare i resti di Lea. Nel corso di una perizia disposta d'ufficio dai giudici in appello non si è riusciti ad estrarre il dna dai resti, ma il pg Tatangelo ha spiegato che le parti del cadavere che sono state ritrovate sono certamente di Lea e «lo ha accertato anche una perizia sulla dentatura». Poi nelle scorse udienze dell'appello è arrivata la confessione, a distanza di oltre tre anni dai fatti, di Carlo Cosco che però ha escluso un omicidio premeditato e ha parlato di un «raptus» perché temeva che la donna non le facesse più vedere la figlia Denise, 21 anni, che con le sue dichiarazioni ha dato un impulso forte alle indagini e che è parte civile contro il padre.
«Non abbiamo mai contestato l'aggravante mafiosa, malgrado le sollecitazioni della stampa e della parte civile - ha chiarito il pg - perché siamo convinti che in questo omicidio c'è una compresenza di fattori come il dolore di Cosco di essere stato abbandonato, il disonore, l'odio profondo che nutriva per questa donna sin dalla fine degli anni '90». Il pentito Venturino, invece, sentito in aula, ha raccontato che l' omicidio venne deciso dalle cosche della 'ndrangheta che diedero l'autorizzazione a Cosco, che anche per la Procura è «un appartenente alla 'ndrangheta».
Al termine della requisitoria, il pg ha chiesto l'ergastolo per Carlo Cosco, Vito Cosco e per Rosario Curcio, e 27 anni di carcere per Carmine Venturino, che in primo grado era stato condannato all'ergastolo.
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