Non fu un vegliardo incanutito. Né un Maestro. Né un mito. Fu dunque un genio? «Sì». Nello studio dove campeggia un gigante gufo chiaro, bianco come chioma e barba di quel genietto che nelliconografia classica e menzognera ha universalmente il nome di Leonardo da Vinci, Philippe Daverio sarrotonda il tabacco nella cartina da sigaretta in attesa di concedersi del sushi. Se iniziassimo a chiamarlo Leonardo da Milano? Il professore toglie gli occhiali tondi, tondi ha gli occhi, tondi da dandy, come un dandy potrebbe essere stato anche quel Leonardo che ieri, domenica 15 aprile, faceva la bella età di 560 anni.
«In effetti Leonardo fu uno spirito milanese ancora prima di arrivare qui. Le sue tonalità cromatiche, i grigi, le ombre e i ruggine si ritrovano proprio nella scuola milanese: da Vincenzo Foppa a Lucio Fontana a Giorgio Armani. Di cromatismo opposto ad artisti come il Ghirlandaio e il Botticelli, Leonardo era lombardo prima ancora di sapere di esserlo. Venne a Milano grazie alla spinta del padre su Ludovico il Moro, perché come Michelangelo e Raffaello era rampollo di buona famiglia. Una famiglia di potere».
Quindi non sarebbe giusto riportare a Milano la Gioconda?
«E perché? I francesi hanno sborsato fior di quattrini per comperarla. Appartiene a loro ormai. E poi se vogliamo dire le cose come stanno la Gioconda non è mai stata un dipinto noto, finché non se la prese Napoleone Bonaparte per metterla nella sua camera da letto e Marcel Duchamp non le fece i baffi. I milanesi in fondo hanno il capolavoro di Leonardo, o più esattamente il 6/7% di quel che purtroppo resta del capolavoro del genio: il Cenacolo».
Leonardo lombardo, fa anche rima. Disegniamo la sua figura?
«Intanto non era un vecchio con la barba bianca come siamo abituati a vederlo. Masticava un latino approssimativo, non sapeva nulla di matematica, apparteneva a una mentalità aristotelica soppiantata dal neoplatonismo delle idee. Era uno spirito confuso con una grande capacità di concentrazione. Intimamente non scientifico ma ingegnieristico. Intuitivamente sperimentale, tanto che a Milano si legò a Luca Pacioli. Nella sua confusione mentale, però, aveva dentro ogni cosa».
Ovvero: era una specie di bimbo?
«Potremmo affermare che ci sia lo zampino di una freschezza infantile nella sua opera».
Forse la milanesità è più infantile di quanto simmagini. E della sua Milano dacqua cosa ci e rimasto?
«Non ripeschiamo questa vecchia abitudine di affiancare Leonardo ai Navigli, per cortesia. Milano è una città dacqua, era una città dacqua. Certamente dei lavori di Leonardo alla corte di Ludovico il Moro abbiamo perso molto. Non siamo in grado di sapere se ci fossero anche opere legate ad un progetto di una Milano acquatica. Però possiamo essere certi di una cosa: lui eseguì sempre quello che gli veniva commissionato dal suo padrone di turno».
Milano, in un certo senso, ha dimenticato Leonardo?
«No, la città riconosce la sua presenza sempre e nel modo migliore possibile. Non lo ha mai trascurato».
A proposito del Cenacolo. Chi siede alla destra di Gesù? San Giovanni o Maddalena?
«Ecco, ecco che ci risiamo. Il destino di Leonardo, unico anche in questo senso, è di aver sempre subìto lonta di una proliferante sottocultura, gabbata dal fascino dellimprobabile a cui io non cedo. Combatto una malattia del nostro tempo: il pressapochismo. Lautore de «Il Codice da Vinci» rivela dessere una bufala in sè per due motivi legati a Parigi prima che a Leonardo. Parla di profumo di mimose a Parigi, quando non cè mai stata una mimosa in quella città. Racconta di capitani e tenenti di polizia, ma in terra di Francia ci sono commissari e ispettori. Se quellautore non è stato in grado di documentarsi su Parigi, figuriamoci su Leonardo».
Nessuna donna, dunque, nellultima cena.
«Lartista eseguì il suo lavoro per il Capitolo dei Domenicani più importanti di tutto il nord dItalia.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.